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Treves Blues Band, quarant’anni minuto per minuto (considerazioni incluse)
Glezos 03/12/2014
“Lo spettacolo inizia alle 21:00, ma è meglio che arrivi un’ora prima”. Le parole di Susanna – moglie di Fabio Treves – mi rimbalzano in testa davanti all’Auditorium, perché per i 40 anni della Treves Blues Band (e i 65 di Fabio, con due giorni di ritardo) l’atmosfera in Largo Mahler è davvero quella delle serate imperdibili. Sarà il periodo dell’anno, sarà la concomitanza con Sant’Ambrogio (o con l’Ambrogino d’Oro, che Treves riceverà nella cerimonia del 7 dicembre al Teatro Dal Verme) e la prima della Scala, ma l’aria è da Milano vintage che corre sulla pista dei buoni: tutto esaurito in prevendita, biglietteria chiusa, tutti hanno il loro posto ma arrivano un’ora prima. La hall si riempie subito. Vado verso il mio posto in platea, mi guardo attorno ed è uno sciamare continuo di magliette vecchie e nuove col logo della band con dentro gente dagli ‘anta’ in su, il fan club è qui in forze ma c’è anche un robusto contingente di trentenni. C’è anche la frangia degli style conscious rappresentata dal tizio sulla sessantina che ho davanti, vestito in impeccabile stile Mississippi country/blues, con tanto di t-shirt nera che riproduce l’etichetta di un 78 giri di Big Bill Broonzy (vincitore assoluto della sfilata, chapeau). Mentre setaccio con gli occhi ogni centimetro della sua maglietta, le luci si spengono e l’imponente logo ‘Treves Blues Band’ appare nel buio del palco.
‘Got My Mojo Workin’’ strumentale fa salire l’attesa. Fabio Treves entra in scena in un’ovazione e va dritto sul microfono ad asta (niente Green Bullet, all’inizio). La sua emozione è chiara fin dalle prime parole a fine brano: “Dovreste vedere quanti siete, visti dal palco. In questo teatro che di solito ospita la musica classica abbiamo fatto il tutto esaurito senza un manifesto, solo col passaparola… meglio non parlare perché mi commuovo…”. Altra ovazione, riparte il fuoco di fila: band solida, la scaletta si srotola e fa da tappeto rosso alle evoluzioni di Treves, che lascia il microfono ad asta e innesca quello a mano – il leggendario Green Bullet, appunto – nell’altrettanto celebre ampli Fender Vibrolux Reverb vendemmia 1970. Uno spettacolo anche per gli occhi, non solo per i feticisti da blues harp di Indiscreto.
La prima sorpresa è una splendida ‘Between The Devil And The Deep Blue Sea’ per la voce e l’ukulele di Alessandro Gariazzo e armonica: lo standard di Arlen & Koehler rinasce, i contrappunti di Treves sono lirismo puro e inumidiscono gli occhi. L’esplosione di applausi copre quasi l’introduzione agli special guest della serata. Paolo Bonfanti è il primo a festeggiare con la sua sei corde un’amicizia artistica e personale che lo lega a Treves da tempo immemore. Poi è il turno di Stef Burns, seconda sorpresa per i puristi: ‘One Way Out’ è il suo tributo a Sonny Boy Williamson in perfetto stile urbano, e l’axe hero di Vasco veste bene l’abito che Treves gli cuce addosso con bending da calo di zuccheri in un boato da stadio. Paola Folli e Le Storie Tese (senza Elio, trattenuto altrove) arricchiscono le portate con una calorica ‘Jacob’s Ladder’ tolta dal menu di Bruce Hornsby e annessa per sapore e condimenti a quello di Elio & Le Storie Treves, come da definizione del leader. Che aggiunge: “Ringrazio tutti gli amici che hanno voluto essere qui sul palco stasera. Mi hanno detto: “Chiama questo, chiama quello”, ma io volevo festeggiare i miei primi 40 anni di blues insieme ai miei amici. Che senso avrebbe avere qui Emma Marrone, che non conosco nemmeno? Con tutto il rispetto, anzi, la salutiamo caramente…”.
In mezzo alla festa, la memoria e le impressioni si accavallano. E anche qualche domanda. La Treves Blues Band targata 2014 è così diversa da quella vintage di metà anni Settanta? Ha ancora senso dividere la musica – e in particolare un genere come il blues – in staccionate da fondamentalisti? E’ un caso che proprio un bluesman moderno del livello di Adam Gussow abbia affermato “Sono per le fondamenta, non per il fondamentalismo”? Il settarismo musicale non è roba da onanisti della peggiore specie, quella nata a migliaia di chilometri e a cinquantine d’anni di distanza dalla vera cosa? E soprattutto – vista la folla e l’entusiasmo – chi ha detto e scritto che il blues è un americanismo anacronistico, senza sorprese e senza pubblico? Mi chiedo cosa ci racconterebbe qualche promoter, manager o discografico in una serata come questa. Ritirerebbe fuori parole da lapidazione come ‘brand’, ‘marketing’, ‘bacino d’utenza’ o ‘settore di nicchia’, tra frizzi, lazzi e pernacchie dei presenti?
Mentre i pensieri spingono, sul palco sale l’ultimo ospite in ordine di apparizione. Eugenio Finardi stasera non poteva mancare. “Nel 1968 suonavo in una blues band ed eravamo convinti che il nostro armonicista fosse il migliore a Milano. Poi un giorno qualcuno ci disse: “Guardate che a Città Studi c’è uno che l’armonica la suona di brutto”. Andammo a vederlo. Era vero”. Poi, il colpo di coda. “The gipsy woman told my mother before I was born…”. L’abbraccio tra Fabio Treves e il suo Blues Brother meneghino per definizione lascia i riflettori a una versione di ‘Hoochie Coochie Man’ da magistero. Finardi proietta il superclassico di Willie Dixon nel qui & ora con una voce che viene dal sottosuolo e che in quasi 40 anni di frequentazione mai mi è sembrata così enorme. Treves muove luci e ombre con toni quasi voodoo, e nel delirio del momento si intravvedono le ali di Bo Diddley battere e spiegarsi nelle formule da Baron Samedi di ‘Who Do You Love’. Cinque minuti memorabili. Che giustificano da soli il perché fosse tanto famosa la scena del blues milanese d’inizio anni Settanta e il livello dei suoi esponenti, insieme alle eterne domande su cosa poteva essere e non è stato.
Ma siamo sicuri che non sia stato? Ci penso, mentre il finale viene giù a cascata. C’è tempo per gli strumentali con citazione (da ‘Miss You’ degli Stones a ‘Jessica’ dei fratelli Allman, passando per ‘Lawrence d’Arabia’) e altro ancora, sempre ricordando a noi stessi e a tutti che ‘The Blues Is Around’. E non è una minaccia né una promessa ma un dato di fatto, in questa serata i cui riverberi difficilmente caleranno nella memoria anche per chi è sul palco, se è vero che Eugenio Finardi e Paola Folli stanno filmando la folla dell’Auditorium con i loro cellulari. Li guardo a fine spettacolo, abbracciati insieme a Susanna intorno a Fabio Treves, che stringe le mani che lo stringono, gli danno regali e gli scattano un mare di foto: quanti tra tutti quelli che salgono legittimamente su un palcoscenico sono amati come lui? Lo rivedo sulla pista del circo in via Salomone a Milano nella primavera del 1976, in una serata a favore del Circolo Giovanile della zona con la prima Treves Blues Band, mentre si lancia nel riff di ‘Caledonia’ di Louis Jordan: la prima volta che sento questo pezzo che suonerò centinaia di volte negli anni a venire proprio con gli stessi che suonano con lui, ma non posso ancora saperlo. Lo rivedo sul palco del Palalido la notte di Capodanno 1977 per Radio Popolare davanti a ottomila persone che saltano da tutte le parti. Qui e ora guardo Fabio Treves salutare il pubblico dell’Auditorium nella notte milanese, e tutto è naturale e sacrosanto: la scintilla iniziale, la convinzione mista a ostinazione, il talento, la perseveranza. È un lieto fine, perché come vuole il detto Shaolin “Tutto finirà bene. Se non finisce bene, non è la fine”.
Glezos, in esclusiva per Indiscreto