Stalingrado

23 Novembre 2022 di Stefano Olivari

Facile dire che Stalingrado sia peggio di Guerra e pace, dopo aver letto con grande fatica le 876 pagine del romanzo di Vasilij Grossman, ma quasi tutto è peggio di Guerra e pace. Il problema è che il libro uscito qualche mese fa in Italia per Adelphi, dopo una storia editoriale durata quasi 70 anni che a sua volta meriterebbe un libro, aveva come modello proprio l’opera di Tolstoi, come dichiarato dallo stesso autore. Ed il problema ancora più grande è che è stato scritto nell’Unione Sovietica di Stalin, da un autore che in origine era sì comunista ma tutt’altro che stalinista e che affrontò la Seconda Guerra Mondiale con la prospettiva del giornalista, corrispondente di guerra per quasi tutta la durata del conflitto e sempre al fronte.

Tutto ruota intorno alle vicende della famiglia Saposnikov e del suo fulcro, Aleksandra Vladimirovna Saposnikova, con le vicende dei suoi figli, generi, ex generi, nipoti, amici e conoscenti di famiglia durante il 1942 e la prima parte del 1943, in una Stalingrado, l’odierna (ma il nome cambiò già con Krusciov, non c’è stato bisogno di Eltsin), Volgograd, dove si combatté la battaglia decisiva della Seconda Guerra Mondiale fra la Sesta Armata tedesca, con i suoi alleati (fra cui purtroppo anche l’Italia) e l’Armata Rossa, con il coinvolgimento della popolazione. A distanza di quasi 80 anni gli storici non hanno ancora trovato una versione definitiva sulle perdite: i più ottimisti parlano di 2 milioni di esseri umani (1.200.000 sovietici, 800.000 tedeschi e alleati) soltanto in questa battaglia, senza tenere conto di feriti, dispersi e prigionieri con i quali le cifre raddoppiano. Per l’Italia meno 100.000 uomini, fra le varie tragiche voci.

Ma tornando al romanzo di Grossman, bisogna dire che il suo punto di forza (ed anche il suo problema principale con la censura) è il contrasto fra l’Unione Sovietica per così dire borghese, rappresentata dai Saposnikov, che però a parole combatte la borghesia, e quella profonda. Due mondi che vanno in battaglia insieme, pur senza entusiasmo nessuno si imbosca (ovviamente è un romanzo), ma che rimangono separati anche se all’atto pratico nella famiglia del professore universitario si vive in dieci in due stanze come in quella del contadino. Il nemico non ha un volto umano, anzi non ha proprio un volto: i personaggi tedeschi sono pochissimi e non esistendo, se non come idea di nemico, non potranno mai vincere. Uno schema fisso anche di tanto cinema americano, va detto.

In molte pagine sembra di leggere un’opera di propaganda, visto che il nazionalismo unisce molto più di altre ideologie e non c’è bisogno di essere Stalin per intuirlo, ma tutto va asteriscato pensando alle revisioni e alle peripezie del libro, che uscì con il significativo titolo Per la giusta causa.  La versione per così dire definitiva, quella che nel 2022 è uscita in tutto il mondo con il titolo di Stalingrado, ha quindi varie anime. Di sicuro anche una scrittura appassionante, ma una lunghezza esagerata in cui ci si perde facilmente (centinaia di volte abbiamo dovuto ricorrere all’utile elenco dei personaggi in fondo al libro, ben 8 pagine) fra nomi, soprannomi, cognomi, patronimici, eccetera.

Il vero libro di Grossman, non diciamo niente di originale però lo abbiamo letto e lo straconsigliamo, è Vita e destino. Che può essere visto come un seguito di Stalingrado e che arrivò in Europa soltanto all’inizio degli anni Ottanta, con difficoltà degne di quelle incontrate vent’anni prima dal Dottor Zivago. Benché scritto nel 1959, in piena era Krusciov, Vita e destino osò l’inosabile (inosabile ancora oggi, anche in Occidente), cioè un parallelo fra Stalin e Hitler, fra gulag e campi di concentramento, con il comune denominatore della distruzione culturale delle minoranze e del dissenso. Un grande libro, mentre Stalingrado, scritto con Stalin ancora in vita, si può anche non leggere. Certo è perfetto per una serie televisiva (l’omonimo film del 2013 non c’entra), ma nel momento in cui il mainstream deve gridare al russo cattivo non crediamo si faccia. Perché quella di Stalingrado, al di là della retorica guerresca, fu la vittoria di un popolo abituato a grandi sofferenze, con qualsiasi assetto politico.

stefano@indiscreto.net

 

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