Storia
Perché cantammo Let it be
Tani Rexho 05/04/2013
“C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones”, cantava Gianni Morandi nel 1966. Non sapeva, il cantante emiliano, che oltre al suo coetaneo americano mandato al macello del Vietnam, molto più vicino a lui, al di là dell’Adriatico, c’era un altro ragazzo come lui che amava i Beatles e i Rolling Stones, e che per quello fu mandato all’inferno di Spaçi. Il ragazzo albanese ebbe però la “fortuna” di sopravvivere a quell’inferno per raccontare la sua storia…in una canzone.
La Grande Rivoluzione Culturale Proletaria del compagno Mao aveva esteso la sua ombra fino ai confini del fratello piccolo. L’arte albanese di fine anni Sessanta versava nell’oscurantismo totale. Non poteva fare a meno di quest’oscurantismo TVSH (Televisioni Shqiptar), la Televisione di Stato. TVSH trasmetteva 4-5 ore al giorno, programmi di pura propaganda. Censura assoluta su qualsiasi cosa trasmessa. Dirigenti messi lì per pura fedeltà al Partito. (Vabbè, come nella capitalista RAI…).
Verso il 1971, però, qualcosa cominciò a cambiare nell’aria. Soprattutto a Tirana e in qualche altra grande città. La gente non ne poteva più di questo medioevo culturale. Qualcuno all’interno del Partito capì che bisognava dare in pasto al popolo qualche “libertà” e autorizzò in modo non ufficiale delle piccole “concessioni”. Una di queste, ad esempio, fu di lasciare libere le frequenze della RAI. In Albania si usavano “zhurmues” – (disturbatori d’onde) per non permettere ai possesori ti apparecchiature TV di ricevere i segnali RAI o JRT (televisione della Jugoslavia), e le TV si fabbricavano per ricevere solo le frequenze VHF (dove si trasmetteva TVSH e RAI 1) e non quelle UHF (frequenze di RAI 2 e canali privati). Qualcuno in alto decise anche di cambiare la direzione della TV di Stato, per portare aria nuova e nominò come direttore Todi Lubonja, comunista di vecchia data, ma uomo innovativo e dalla mentalità aperta. Il clima dentro il TVSH cambiò radicalmente. Cominciò la trasmissione di programmi esteri come le Olimpiadi di Monaco o il Festival di Sanremo. Lubonja riempi la TV con registi e autori bravi e preparati, uno dei quali, Mihal Luarasi, un suo amico di vecchia data. Nuova gente. Nuova linfa. Nuovi programmi. Aria nuova.
Gli artisti cominciarono ad uscire (anche se con passi piccolissimi) dai rigidissimi schemi “proletari”. Tuttavia, poteva un semplice direttore avere la forza di cambiare linea editoriale, in un regime dove tutto passava per la cruna dell’ago della censura e l’approvazione del Politburo? Assolutamente no. Lui però era amico di Ramiz Alia, membro del Politburo e delfino di Nexhmije Hoxha, la potentissima moglie del dittatore. In questo clima di respiro nuovo si cominciò a preparare il Festival della Canzone 1972. Il regista Luarasi decide per una linea musicale diversa. Più canzoni d’amore. Niente inni al lavoro socialista e al partito. Cantiamo l’amore! Persino i vestiti dei partecipanti erano diversi. Moderni. Via i grigi noiosi e i vestiti da suore. Colori vivaci per le donne. Giacche di taglio moderno per gli uomini. Moda, fino allora permessa solo ai figli dei membri del Politburo.
Alle prove generali, Ramiz Alia (che era anche il responsabile della cultura per conto di Hoxha) e Fadil Pacrami (segretario del comitato centrale del partito per l’ideologia) entusiasti, si complimentano con Lubonja e Luarasi. Anche se, prima di andare via, Alia sorridendo sussurra un: “Speriamo che dietro questa bellezza non si nasconda una caramella avvelenata…”. Ad ogni modo, gli organizzatori erano tranquilli. Se due dei pezzi grossi del Partito avevano avuto impressioni positive, anche il resto del Politburo sarebbe stato d’accordo con la linea seguita, pensavano. Il Festival fu un trionfo tra la gente, soprattutto nelle grandi città. Tra incredulità ed entusiasmo, i giovani parlarono dappertutto di moda, canzoni, melodie. Finché…
Hoxha non aveva gradito. Troppa libertà concessa. Testi ideologicamente pericolosi e lontani dallo spirito marxista-leninista. Ma l’indignazione doveva arrivare dal basso. Dal popolo. Il partito doveva obbedire alla volontà del popolo. Qualche settimana di felicità e illusioni per organizzatori e partecipanti, e sui giornali cominciano ad apparire lettere di “indignazione e protesta” verso questa deriva vergognosa e decadente. La gioventù comunista e il proletariato volevano spiegazioni. Ovviamente, tutto era orchestrato dai fedelissimi del Capo. Alia cerca di tranquillizzare l’amico. Si pensa ad una critica lieve e basta. Non per gli standard di Hoxha, però.
La lezione doveva essere esemplare. Punire uno, per educarne cento. Primi giudici di Lubonja? I suoi colleghi comunisti della TVSH. Molti di coloro che avevano lavorato per organizzare il Festival, adesso criticavano aspramente il loro direttore. Il verdetto ormai era scritto: “nemico del popolo”. Lo rimuovono dal suo posto e per qualche mese va a fare il direttore di una piccola fabbrica nel nord del paese. Questa era solo la prima onda. Lo tsunami stava per arrivare. In pieno stile Hoxha. Il quale critica il Festival e il clima liberale in ogni intervento pubblico al quale partecipa. E’ un crescendo di violenza verbale fino ad arrivare al apoteosi delirante del famigerato Quartto Plenum del Partito. Lì lancia il suo anatema contro i nemici ideologici del popolo. Portatori di valori borghesi e imperialisti. Un processo di inquisizione violentissimo. Decine tra artisti, scrittori, musicisti, pittori classificati come “deviatori dalla linea del marxismo-leninismo” rimossi dai loro posti e proibiti di esercitare la loro arte spedendoli a “ri-educarsi” tra la classe operaia (leggi- fior di artisti a fare gli operai di fabbrica), o peggio, condannati duramente.
Lubonja, uomo dall’animo nobile, non scaricò la responsabilità (di che poi?) sui suoi collaboratori, ma coprì tutti prendendosi tutte le “colpe”. Ramiz Alia invece, l’uomo che secondo i canoni di Hoxha doveva essere il primo a pagare, ne uscì indenne. La leggenda narra che fu visto piangere inginocchiato di fronte a Hoxha e sua moglie, giurando di non saper nulla… Nel 1985, dopo la morte del capo, ne divenne il suo successore. Nessuna pietà invece per i nemici in “agitazione e propaganda”. Lubonja, il direttore, 16 anni di carcere. La famiglia internata a Grabjan, un villaggio infernale dell’Albania centrale. A lavorare nei campi di cotone. Quando nel 1986, da studenti, proprio in quel villaggio passammo un mese ad aiutare “la costruzione del socialismo”, raccogliendo cotone, le istruzioni erano: “Attenti! In questo posto ci sono molte famiglie di nemici del popolo, tra le quali quella del mascalzone Todi Lubonja. Nessun contatto con loro!”. Nemmeno fossero lebbrosi.
Luarasi, il regista, 8 anni di carcere. Sua moglie, presentatrice del Festival e attrice di talento fu mandata a fare l’operaia. Stessa sorte all’altro presentatore, Bujar Kapexhiu. Serviva una rieducazione esemplare “ne gjirin e klases punetore” (tra gli operai). Nota triste: quando i due uscirono dalla galera alla caduta del comunismo, Lubonja nel suo libro di memorie accusò Luarasi di averlo tradito durante il processo. Ma il quadro delle condanne non poteva essere completo senza uno dei cantanti di quel Festival, Sherif Merdani. Il miglior cantante albanese di fine anni ’60 inizio ’70. La sua colpa? L’amore per la musica italiana e quella dei Beatles. Ma soprattutto la sua provenienza: una famiglia di ex-commercianti. Onesti, ma non dalla “biografia pulita”, per gli standard del partito. Non proletari abbastanza. Dopo scrittori, compositori, attori, registi, bisogna trovare anche un cantante da dare in pasto al proletariato e alla “lotta di classe”. La canzone di Merdani al Festival non era più “decadente” delle altre, perciò bisognava trovare un motivo “serio” per condannarlo. Detto, fatto.
Qualche mese fa, era stato invitato a cantare al Congresso dell’Unione dei Lavoratori (il sindacato unico e ufficiale del regime). Il funzionario culturale del partito gli dice: “Siccome tra gli invitati c’è una delegazione di sindacalisti inglesi, sarebbe bello cantare qualcosa in inglese, per fare vedere al mondo che l’Albania è un paese aperto e non quell’inferno oscurantista dipinto dai nemici”. Lui canta, loro applaudono. Mesi dopo, lo stesso Partito che gli aveva chiesto di cantare in inglese, gli rinfaccia di aver cantato in inglese. Spedito alla prigione di Spaçi, battezzato l’Auschwitz albanese per le sue condizioni disumane. 16 anni di lavori forzati in una delle miniere peggiori dell’Albania per aver cantato “Let It Be”. (fine seconda parte – continua)
Tani Rexho, in esclusiva per Indiscreto
http://www.youtube.com/watch?v=UWnFzgITQGc