La lunga marcia di Adem Sabli

9 Aprile 2013 di Tani Rexho

Molti furono gli sportivi albanesi che cercarono di fuggire all’estero durante gli anni “felici” della dittatura di Hoxha. Qualcuno con successo. Qualcun altro ci lasciò la pelle. Abbiamo scelto di raccontare, fra le tante degne di essere raccontate, la storia di Adem Sabli perché ci ricorda quella di una leggenda dell’atletica Europea come Emil Zatopek.

Durante i Giochi dell’Esercito Albanese, nel 1961, la Divisione Militare di Korce ha tra le sue fila della sua squadra di calcio un ragazzo magrissimo per malnutrizione (52 chili per 175 centimetri), ma molto veloce. Il responsabile degli sport chiede quindi ad Adem Sabli di correre gli 800 e i 1500. Lui obbedisce e vince. Arriva la gara dei 5.000. Lui obbedisce e vince. “Adesso i 10 chilometri di marcia, Adem” – gli dice il superiore. Il ragazzo questa volta lo guarda sbalordito: “Comandante, non ho mai fatto questa gara! Non ho alcun allenamento specifico nelle gambe. E soprattutto non conosco nemmeno la tecnica giusta!”. “Tranquillo, figliolo. La tecnica lo impari con un po’ di allenamento. Vai a vincere, adesso”. Primo posto, 52 minuti nella sua prima volta in assoluto nei 10 km di marcia. Solo un minuto in più del record albanese.

Il club “Partizani”, sotto il protettorato del Ministero della Difesa, lo recluta subito. Arrivare dalla caserma, nel club che insieme al Dinamo era il più prestigioso del paese, era come passare da una baracca di periferia ad un hotel a cinque stelle. Cibo di qualità (soprattutto quello), vestiti sportivi, scarpe da corsa. Là incontra anche un altro astro nascente dell’atletica albanese, il giovane Isa Tare (padre del calciatore Igli Tare). Tra i due nasce un’amicizia forte, che durerà nei decenni, nonostante le diverse strade prese in seguito. Alla prima gara nazionale, con il tempo di 47 minuti diventa campione e stabilisce il nuovo record. Durante una gara non ufficiale arriva a 45 minuti. Ormai è diventato famoso. Quel ragazzo arrivato dal villaggio di Borak, un paese di 2500 anime nell’Albania Centrale e popolato dalla minoranza bosniaca rappresenta l’occasione per un ottimo veicolo propagandistico. L’esercito gli dà il grado di capitano.

Il suo allenatore, che è anche segretario della sezione del partito per il club, gli propone di diventare comunista. “Cosi potrai rappresentare la Patria e il Partito da atleta comunista”. Adem accetta e compila il formulario richiesto, ma non sa che la sua onestà gli segnerà la vita per sempre. Sì, perché Adem parla benissimo il serbo. Ama le canzoni jugoslave e non ne fa un mistero. Alla riunione della sezione, l’inquisizione dei compagni lo stupisce: “Perche’ parli serbo?” “Come perché? I miei genitori provengono dalla Bosnia”, “Perché ti piace la musica jugoslava?” “Tu ami la Jugoslavia?” “E se si, chi ami di più? La Jugoslavia o l’Albania?”. Sorpreso e incazzato per l’assurdità delle domande risponde stizzito. “Guarda, noi pensiamo che invece dei soliti sei mesi come candidato, ti servirà un anno e mezzo per dimostrare al partito che sei pronto”. L’unico che sta dalla sua parte, Petrit Murzaku, atleta e pallavolista, essendo di origine romena, capisce le difficoltà di Sabli.

Quell’inquisizione ridicola crea la prima crepa tra Sabli e l’ideologia del partito. E’ in quel momento che nasce per la prima volta la voglia di abbandonare per sempre l’assurdità di una politica senza senso. Lui vuole vivere la sua vita. Ama correre. Non vuole sacrificare la sua gioventù per dei dogmi di burocrati senza anima. Però sa anche delle conseguenze che la sua famiglia avrebbe e dolorosamente si sveglia dal sogno per vivere l’incubo. Continua a gareggiare e a vincere senza avversari in Albania. La corsa lo rende felice. La fama non gli interessa, ma la voglia di misurarsi con atleti stranieri è tanta e l’occasione arriva con il Campionato Balcanico d’Atletica del 1964 a Bucarest.

Deve correre i 20 km di marcia. I suoi rivali principali sono un atleta del posto ed un bulgaro. Le sue gesta sono arrivate fin lì, durante gli allenamenti è l’osservato speciale. Il capo della delegazione albanese gli chiede solo una cosa: “Ascolta, sarà importante arrivare in zona medaglie, ma la cosa più importante è battere l’atleta jugoslavo”. Il nemico ideologico prima. Prima di partire per lo stadio, il suo allenatore entra in camera e gli ordina: “Adem, togliti le scarpe, e prova queste. Sono nuove. Frutto del lavoro dei fratelli cinesi.”. “Guarda che non mi sembra il caso di cominciare la gara con scarpe mai provate prima. Queste che ho vanno benissimo” – risponde l’atleta. “Ma che sei matto? Sai che se non le metti, penseranno che vuoi sabotare l’amicizia albanese-cinese? Su, via, vedrai che correrai meglio.”

Comincia la gara e nei primi 10 chilometri è sempre con il gruppo dei primi tre. Pian piano, però, le scarpe nuove essendo strette cominciano a fargli un male terribile. Gli alluci cominciano a sanguinare (dopo, in albergo perderà anche le unghie), il dolore è atroce, ma lui continua la gara. Alla fine arriverà settimo. Ma quello che è peggio è che l’atleta jugoslavo lo sorpassa all’ultimo chilometro. Subito dopo la gara, incurante del fatto che Sabli sta zoppicando pesantemente, e sanguinando vistosamente, il capo delegazione gli si avvicina è gli urla un “Vai ad abbracciare il tuo compaesano titista! Vergognati!”. Decide di non lamentarsi delle scarpe, per paura che glielo rinfaccino come tentativo di denigrare il rapporto fraterno tra “il leone comunista d’Europa e quello asiatico”. Parla della sua delusione solo a Tare, l’amico fraterno, il quale conoscendo il carattere estroverso dell’amico, gli consiglia di stare attento a quello che dice in giro.

Mica è finita lì, però. Un altro atleta jugoslavo, che ha perso il bus, chiede agli albanesi se può tornare in albergo con loro. Si siede vicino Sabli e scambiano qualche parola in serbo. Una volta in albergo, i comunisti della squadra cominciano ad attaccarlo di nuovo per essere stato seduto vicino allo jugoslavo. Per sua fortuna è presente anche Clirim Balluku, atleta e figlio dell allora Ministro della Difesa, Beqir Balluku. “Scusate, ma di cosa cazzo state accusando Adem? Di essere stato civile ed aver fatto posto ad uno che ha chiesto un passaggio? Dove è stata calpestata la linea del Partito?”. Caso chiuso. Lui si può permettere di mandare affanculo gli accompagnatori di Sigurimi. Almeno per qualche anno ancora…

Adem continua con le sue vittorie. Niente lo eccita di più del fruscìo del vento e della stanchezza di fine gara. Ama l’Albania, il paese dove è nato. Adora Borak, il suo villaggio e la gente gentile e umile dell’Albania Centrale. Ma a 25 anni sentirsi umiliato per colpe che non ha accende in lui ogni giorno in più una voglia irrefrenabile di un altro tipo di corsa. Senza lo stile e le regole rigide della marcia, ma con la forza esplosiva dei cento.

Qualche mese dopo lo fanno comunista a tutti gli effetti. La Nazionale di atletica deve andare in Cina a preparare i Giochi Atletici che si terranno ad Atene. Il Capo delegazione lo chiama e gli dice: “Adem, adesso tu sei comunista. Le responsabilità aumentano. Il Partito vuole che tu vigili su Gani Alia e Isa Tare”. Gli chiedevano di spiare l’amico, il quale durante la permanenza a Bucarest si era azzardato e sorridere e cambiare due parole con una ragazza del posto. In Cina si lamenta del cibo. Normale, non essendo lui abituato alla cucina asiatica, ma per “le guardie” del partito è un chiaro segno che il neocomunista non credeva nel grande fratello asiatico. Prima le scarpe, poi il cibo. Non poteva essere un caso. Dopo gli allenamenti in Cina, l’itinerario del ritorno prevede Mosca, Praga, Budapest, Tirana.

Durante la fermata in albergo a Mosca, confessa  all’amico: “Isa, io scappo. Non ce la faccio più. Vado a chiedere asilo all’ambasciata jugoslava. Vieni con me?”. L’amico, lo guarda, lo abbraccia e scoppia a piangere. “Non posso Adem. Penso a quello che passerà la mia famiglia. E non posso fare questo a Beqir Balluku. Non lo posso tradire. Devo molto a quell’uomo”. Alle due del mattino del 31 luglio 1965 abbraccia l’amico e lascia l’albergo. Camminando verso l’ambasciata jugoslava, però, una voce gli bombarda il cervello: “La mamma, i fratelli, le sorelle dove li lasci? Cosa succederà a loro?”. Tre ore dopo Tare lo vede rientrare. Si guardano negli occhi, senza scambiare parola. Già in giornata però si pente di non essere scappato. Una volta a Praga, il membro del Sigurimi che accompagna la squadra decide che lui e Tare devono dormire in camere diverse sorvegliati da due atleti fedeli al regime. Qualcosa ha intuito. Fa capire a Sabli che una volta a Tirana la sua carriera sarà finita. Mortificato per l’occasione persa a Mosca, si deprime.

Il caso, scrisse Anatole France, è lo pseudonimo di Dio quando non vuole firmare. E quel caso fa sì che l’aereo debba fare un altro non previsto stop a Belgrado per prendere una delegazione di comunisti indonesiani in visita a Tirana. Era il 3 agosto del 1965. Adem non sta più nella pelle e il suo viso tradisce un’agitazione forte mentre l’aereo atterra a Belgrado. Il gruppo cammina verso l’edificio dell aeroporto, e Adem si trova da una parte Tare e dall’altra l’atleta che il Sigurimi gli ha assegnato come “guardia”. Nella giacca, prima di partire da Budapest, ha nascosto un coltello comprato come souvenir in Cina. In modo fulmineo stringe la mano all’amico e con uno sguardo controlla il suo “angelo nero” che nel frattempo ha notato la sua agitazione e ha allungato le mani per fermarlo. Sabli gli mostra il coltello ed in un attimo di esitazione dell’altro si lancia finalmente in quella corsa esplosiva tanto sognata. I due atleti “guardie” gli corrono dietro, con le guardie jugoslave incredule per quello che stanno vedendo. Corre forte verso un campo di granoturco che affianca l’aeroporto, ma gli altri si avvicinano. Sembra la scena di un film. Un camion appena uscito dall’aeroporto sta andando nella stessa direzione di Sabli, mentre gli inseguitori sono ad una trentina di metri. Adem esce sulla strada e grida in serbo al camionista. “Aiutami! Sono jugoslavo!” Il camionista si ferma e lo fa salire: “Fratello sei al sicuro. Chi sono quelli che ti inseguono?” “Albanesi”. Questo basta all’autista slavo per premere ancora più forte sul pedale.

Finalmente, sospira Adem. Ma la pace dura un attimo. Un’automobile si avvicina al camion e lo fa fermare. “Siamo dell’UDB, servizi segreti jugoslavi”, dicono. “Scendi dal camion e vieni con noi”. Lo riportano verso l’aeroporto. Comincia a tremare. “Perché mi portate indietro? Sono jugoslavo. Non voglio tornare in Albania!” grida . “Tranquillo. Non ti mandiamo indietro. E’ semplice routine”. E invece non è routine. L’UDB lo riporta all’aeroporto e lo fa vedere alla delegazione albanese come una preda da mostrare ai cacciatori rivali. Belgrado si mette in contatto Tirana e propone uno scambio con una delle sue spie sotto le zanne del Sigurimi. Lui si sente tradito dagli jugoslavi e quasi impazzisce nell’attesa. Tornare indietro significa almeno 15 anni di carcere. Per sua fortuna lo scambio non viene accettato da Tirana e l’aereo lascia Belgrado con un passeggero in meno e un nemico del popolo in più.

Al ritorno Tare diventa oggetto di interrogazioni fiume, ma tutto viene chiuso con l’intervento del suo mentore Ministro Della Difesa. La famiglia Sabli viene internata nel sud dell’Albania. Una volta in Bosnia Adem corre per qualche anno ma ovunque vada si guarda alle spalle. I servizi jugoslavi lo hanno avvisato di stare attento dai kosovari. Ci sono circa tr mila di loro sul libro paga del Sigurimi. Lo stress di quegli anni lo pagherà dopo con le continue crisi di depressione e i problemi cardiaci.

La guerra tra serbi e bosniaci, tra le migliaia di vittime e  case distrutte, distrugge anche la sua abitazione a Mostar, trasformando in macerie tutte le foto, le medaglie e i ricordi del grande campione. Sabli avrà però la fortuna di vedere ancora sua madre, la sua famiglia e i tanti amici lasciati indietro quel giorno d’agosto per correre la gara più intensa e difficile della sua carriera. (3-continua).

Tani Rexho, in esclusiva per Indiscreto

Anche questo è un vantaggio del correre rispetto agli altri sport: ognuno va per conto suo e non ha da rendere conto agli altri. (Italo Calvino)

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