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Parola (troppa) di Venditti
Stefano Olivari 16/04/2014
“Venditti, ci siamo rotti le palle!”. Dopo 2 ore di concerto, al Teatro degli Arcimboldi di Milano questo grido è arrivato stentoreo da uno spettatore, ad interrompere il monologo del cantautore romano. Che ha reagito con la presenza di spirito tipica di chi a suo tempo ha fatto musica per la strada, spiegando che il teatro non può avere tempi televisivi e che se si vogliono ascoltare soltanto le canzoni basta comprare un disco. L’interazione è continuata, fino a quando Venditti ha chiuso il discorso con un ‘Mo me sono rotto er cazzo’ degno del commissario Giraldi. Però Venditti, più pacato del suo interlocutore, non aveva ragione. Perché l’artista mette sempre il vissuto nella sua arte, è ovvio, ma non è che debba inserire le note a margine come se fosse il biografo di sé stesso. Invece Venditti ha voluto spiegare i suoi anni Settanta e i suoi anni Ottanta, architrave della scaletta del 70. 80. Ritorno al futuro tour, come se le canzoni non avessero un testo e un significato già chiari. Coinvolgente la psicoanalisi familiare (i ricatti affettivi della mamma professoressa, l’anarchismo inserito nelle istituzioni del padre, la religiosità della nonna, il rapporto con il proprio corpo), interessante anche se risaputa quella sul Folkstudio (De Gregori, eccetera), ma pesantissimi tutti gli altri temi affrontati solo a parole. Femminismo, omosessualità, ragazze madri, droga (Lilly metterebbe tristezza anche a un sasso), amicizie perdute, politica, vita quotidiana a Roma, divorzio: una quantità di sermoni, infarciti di qualunquismo, da destra e sinistra che non esistono più alle buche in strada, davvero eccessiva anche per i fan più motivati, che si sono spinti fino alla Bicocca pagando cifre non modiche (Biglietto più popolare a 50 euro). In un concerto durato quasi quattro ore (ma Springsteen non è che parli per due ore e mezzo dei problemi del New Jersey o delle pressioni di sua madre: la ben nota, ai bootleggisti del Boss, Adele Zirilli), Venditti ha mostrato però anche parti del miglior Venditti, quello che fra i grandi della sua generazione (ha 65 anni) è invecchiato meglio: il repertorio praticamente infinito che consente scelte anche non scontate e piacione, la voce senza incertezze e soprattutto la scarsa propensione a rivisitare e stravolgere le canzoni più famose. Non è un caso che Baglioni e soprattutto De Gregori, due cultori della rivisitazione, siano stati omaggiati con una certa freddezza: il primo osservando che ‘Avrai’ non ha senso perché ‘Io preferisco l’essere’ (ma cosa vuol dire?), il secondo sorvolando su molte parti della loro lunga storia comune. Di certo Venditti, sempre uguale a sé stesso, ha fatto digerire anche canzoni decisamente brutte come Sora Rosa, Mio padre ha un buco in gola e Lo stambecco ferito, insieme a parte delle sue hit storiche: da Roma Capoccia a In questo mondo di ladri, passando per Notte prima degli esami, Ci vorrebbe un amico, eccetera. Curioso l’aneddoto riguardante Penna a sfera, scritta contro un giornalista di Ciao 2001 (grande giornale, peraltro, arrivato quasi all’alba del terzo millennio) che negli anni Settanta aveva osato titolare un articolo ‘Compagni e champagne’, dopo avere osservato lo stile di vita di Venditti e altri ‘impegnati’ dell’epoca. Solita storia: per il più stupido dei tifosi, così come per il più affermato degli artisti, il bravo giornalista è quello zerbinato e adorante. Prima parte del concerto solo per pianoforte e voce, la seconda più scorrevole con strumentisti e parte del pubblico sul palco. Alla fine i 2.300 dell’Arcimboldi hanno avuto il loro Venditti vendittiano, fermo agli anni Ottanta, purtroppo però molto meno ‘romano’ e molto più guru rispetto al personaggio che li ha conquistati.