Parata di stelle

17 Marzo 2008 di Alec Cordolcini

Materia spinosa quella delle classifiche dei migliori giocatori di sempre, a forte rischio di soggettività e provincialismo nonché spesso fonte di sterili dibattiti. Abbiamo pertanto voluto omaggiare il ruolo del portiere in un modo differente; non una graduatoria ma un elenco, in rigoroso ordine alfabetico, dei numeri uno che hanno fatto la storia del calcio. Dodici personaggi da ricordare o da riscoprire, con un’unica avvertenza: sono stati volutamente esclusi dalla lista i portieri ancora in attività.

Gordon Banks. La parata del secolo, per giudizio quasi unanime, appartiene a lui. Il riflesso felino con il quale Gordon Banks volò da un palo all’altro della porta per impedire al colpo di testa di Pelè di infilarsi in rete ai Mondiali del 1970 rimane uno dei momenti di massimo tasso emozionale nella storia del calcio. L’Inghilterra uscirà da quel torneo ai quarti di finale contro la Germania Ovest, con “l’eroe che poteva volare” (copyright Don Mullan, autore dell’omonimo libro) tristemente in panchina causa problemi di stomaco. Campione del mondo nel 1966 con soli tre gol subiti in tutto il torneo, Banks era stato incredibilmente scaricato nello stesso anno dal suo club, il Leicester City, che aveva preferito puntare sull’emergente Peter Shilton. Due Coppe di Lega vinte (una con i Foxes, una con lo Stoke City), la nomina di Ufficiale dell’Impero Britannico e un grave incidente nel ’72 che lo terrà fermo cinque anni, prima di un breve ritorno in campo nel campionato irlandese e nella NASL americana.

Rinat Dasaev. Musulmano di Astrachan’, città nei pressi del Mar Caspio distante circa 1300 chilometri da Mosca, Rinat Dasaev è sempre stato costretto a nascondere la propria fede. L’ha sepolta sotto centinaia di parate, l’ha celata dietro uno stile in cui mescolavano alla perfezione atletismo e tecnica, l’ha occultata all’interno dell’immagine di erede della leggenda sovietica Lev Jašin. Sarebbe stato imbarazzante per il Partito sapere (e soprattutto far sapere) che era un credente e un praticante l’uomo che difendeva i pali dello Spartak Mosca (cinque titoli nazionali) e dell’URSS, medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Mosca del 1980, il frutto migliore della generazione d’oro targata Valeri Lobanovski, colui che nella finale dell’Europeo ’88 si sarebbe piegato solo di fronte a una meraviglia di Marco van Basten. Poi, quando tutto stava crollando, Dasaev se n’è andato a monetizzare gli ultimi scampoli di carriera al Siviglia, senza però ambientarsi; allora è tornato a casa, libero finalmente di non doversi nascondere più.

Lev Jašin. Nella polisportiva della Dinamo Mosca giocava a calcio e hockey su ghiaccio; a 23 anni il figlio della classe operaia Lev Ivanovič Jašin decise di optare per la seconda disciplina, dal momento che nella prima aveva la strada sbarrata dall’icona locale Aleksej Khomič. L’infortunio di quest’ultimo restituì al calcio colui che sarebbe diventato uno dei più grandi portieri di tutti i tempi. Lo chiamavano il Ragno Nero, per la divisa corvina indossata ma soprattutto per i riflessi talmente straordinari, a dispetto del metro e novanta di altezza, che sembrava possedesse sei braccia. Con l’URSS oro olimpico nel ‘56 a Melbourne, semifinali al Mondiale di Svezia due anni dopo, campione d’Europa nel ‘60. Con il Resto del Mondo barriera insuperabile nell’addio al calcio di Stanley Matthews a Wembley nel ’63, per un incontro (perso 1-0 dagli inglesi) che ha creato il mito Jašin regalandogli anche il Pallone d’Oro, unico portiere a vincere il trofeo assegnato da France Football. Poi tanti altri trofei, con la Dinamo e individuali, e numerose cifre a cavallo tra statistica e leggenda, come i 150 rigori parati in carriera e i 480 incontri (sugli 812 disputati) conclusi senza subire reti.

Jan Jongbloed. Non un modello ma un simbolo, quello del Calcio Totale dell’Olanda di Cruijff. La filosofia era quella dell’intercambiabilità dei ruoli, tutti dovevano saper fare tutto; una regola che valeva anche per l’estremo difensore, trasformato in una sorta di libero in grado di giostrare con efficacia anche fuori dalla porta e di rimediare ai buchi di un pacchetto arretrato che, ai Mondiali del ’74, giocava molto alto schierando un solo centrale di ruolo. Tra i pali tutt’altro che un fenomeno, fuori Personaggio con la P maiuscola; divisa giallo canarino, numero 8 stampato sulla schiena, ginocchiere bianche, professione tabaccaio, ideologicamente anarco-comunista, la pesca come hobby, il calcio come impiego part-time, almeno fino a 34 anni. In mezzo, due finali Mondiali disputate (’74, ’78), un titolo nazionale olandese vinto con una neopromossa, il Dws Amsterdam, il primato di oltre 700 partite in Eredivisie. “Non esiste nulla di meglio al mondo del ruolo di portiere”, disse una volta. “E’ la massima percezione del concetto di libertà”.

Sepp Maier. “Oggi giochi in porta”, gli intimarono. E il piccolo Josef Dieter Maier, anonimo attaccante del TSV Haar, non osò rifiutarsi. Giocarono contro il Bayern Monaco, lui incassò 12 gol. Con suo grande stupore a fine partita venne avvicinato da Rudi Weiss, allenatore delle giovanili del club bavarese. Un anno dopo, nel 1959, Sepp Maier poneva il primo mattone di una straordinaria carriera che lo avrebbe visto vestire per oltre due decadi (periodo delle giovanili compreso) la maglia del Bayern Monaco, contribuendo da protagonista alla genesi e al consolidarsi di una squadra capace di passare, nell’arco di un quindicennio, dalla Zweite Bundesliga (la serie B tedesca) a una bacheca contenente tre Coppe Campioni, quattro campionati e quattro coppe nazionali, una Coppa Coppe e una Coppa Intercontinentale. Una bulimia da successo che Maier e compagni hanno trapiantato anche in nazionale: campionato europeo nel ’72, Coppa del Mondo nel ’74, tanto per gradire. Supremazia sportiva tedesca.

Jean-Marie Pfaff. Carismatico, bizzarro, geniale, ma contestualmente freddo come un punteruolo di ghiaccio una volta infilati i guantoni; in poche parole le due facce di Jean-Marie Pfaff, immagine pubblica da clown, professionista esemplare sul terreno di gioco. Da zero a mito, dalla roulotte parcheggiata ai lati della piazza principale di Anversa (dimora della sua famiglia, venditori itineranti di professione) ai fasti della nazionale. Finale dell’Europeo 1980, quarto posto a Mexico ’86 dopo prestazioni da leggenda contro URSS (4-3 agli ottavi) e Spagna (eliminata ai rigori nei quarti). Il miglior Belgio di sempre grazie al più forte numero uno della sua storia. Insuperabile nelle giornate più ispirate, incubo ricorrente dei rigoristi e della lingua tedesca, maltrattata a più riprese con una sorta di miscuglio fiammingo-germanico entrato nella storia sportiva e di costume del paese. Tre campionati e due Coppe di Germania con il Bayern Monaco, un titolo e una coppa nazionale con il Beveren, provinciale belga da cui tutto ha avuto inizio. Lo chiamavano “fatty”, giocava in porta perché non c’era altro posto dove mettere quel ragazzino discretamente sovrappeso.

Frantisek Planicka. Il Gatto di Praga, trofei a go-go in patria (otto titoli nazionali, sei coppe), una finale Mondiale persa di fronte a un altro fuoriclasse dell’epoca, il numero uno degli Azzurri Giampiero Combi, un acuto europeo (la Mitropa Cup nel 1938), una sportività pari solo alla classe mostrata tra i pali della porta. Per passare il turno ai Mondiali del ’38 i brasiliani dovettero rompergli un braccio; lui rimase in campo per 120 minuti mantenendo l’1-1, poi non poté scendere in campo nella ripetizione. A Torino invece i tifosi della Juventus lo colpirono con una pietra; lo Slavia Praga si ritirò per protesta e fu squalificato. Aveva vinto l’andata (si giocava la semifinale della Mitropa Cup anno 1932) 4-0.

Michel Preud’Homme. Dicono che in carriera abbia vinto poco. Vero, ma lo ha fatto con la maglia del Malines, il piccolo club fiammingo capace di arrivare sul gradino più alto del campionato belga e dell’Europa minore, legg
i la Coppa delle Coppe e la Supercoppa Europea. In Coppa Campioni si fermarono invece ai quarti di finale contro il Milan di Marco van Basten, che però ci mise 120 minuti per far crollare il muro eretto dal numero uno vallone, mostruoso per riflessi e senso della posizione tra i pali. Un miracolo, quello del Malines, ancora oggi nel cuore dei nostalgici degli anni Ottanta. Poi tanta nazionale belga (miglior portiere a Usa ’94) e numerose stagioni al Benfica, ma la bacheca rimane vuota (escludendo i successi di inizio carriera con lo Standard Liegi). Un peccato mortale per la gretta accolita del “cos’ha vinto?”.

Peter Schmeichel. Segni particolari: assoluta mancanza di modestia. Ma questo figlio di un pianista jazz polacco e di un’infermiera danese se lo è sempre potuto permettere grazie al suo smisurato talento. Nessuna paura, mai. A 21 anni, giovane emergente con la maglia del Hvidovre Køpenaghen, dichiara pubblicamente che Ole Qvist, all’epoca considerato il più forte portiere danese, gli è inferiore di un’abbondante spanna. Nella stagione 90/91 porta il Brøndby fino alle semifinali di Coppa Uefa. Nel 92/93 festeggia 22 partite di Premier League concluse con la porta inviolata e soprattutto un titolo nazionale che in casa Manchester United mancava da 26 anni. Seguiranno altri quattro scudetti (più un altro in Portogallo a fine carriera con lo Sporting Lisbona), tre FA Cup, una Coppa Campioni e una Supercoppa Europea. Ciliegina sulla torta, il sorprendente Europeo vinto nel ’92 con la Danimarca, nazionale con la quale vanta 129 presenze e un gol all’attivo, segnato nel 2000 al Belgio su rigore.

Jan Tomaszewski. Maglia gialla, calzoncini rossi, calzettoni bianchi, capelli lunghi e arruffati. Un clown, secondo il ct dell’Inghilterra Ramsey alla vigilia di Inghilterra-Polonia, 17 ottobre 1973, incontro di qualificazione per i Mondiali del ’74 che i britannici dovevano assolutamente vincere. Un giocatore con poca personalità a detta del Legia Varsavia, massimo club nazionale, che lo aveva ceduto senza alcuna remora al piccolo LKS Lodz. Un portiere poco affidabile, commentava la stampa polacca, che due anni prima aveva esordito in nazionale, Polonia-Germania Ovest 1-3, a suon di papere. La vittima perfetta, insomma. Non quel giorno però, e non in quello stadio, il mitico Wembley. La partita finisce 1-1, Jan Tomaszewski annienta giudizi e pregiudizi, oltre che le speranze dell’Inghilterra intera, con una dozzina di super-interventi. La Polonia va ai Mondiali, dove arriverà terza, con il nostro capace di parare due rigori in due diversi incontri. Medaglia d’argento nel ’76 alle Olimpiadi di Montreal, il regime comunista polacco gli permetterà di lasciare la Polonia solo dopo i 30 anni, per un più remunerativo finale di carriera in Belgio e in Spagna.

Ricardo Zamora. Una dozzina di sigarette corroborata da numerosi cicchetti. Non propriamente la dieta quotidiana ideale dello sportivo. Eppure Ricardo Zamora lo è stato ai massimi livelli. A dieci anni praticava boxe, nuoto, mezzofondo e pelota, ma la fenomenale reattività lo indirizza verso il calcio, e a quindici anni è già in campo nel campionato spagnolo a difendere la porta dell’Espanyol. Nel 1919 passa la Barcellona, l’anno seguente è medaglia d’argento con la Spagna alle Olimpiadi di Anversa. Un pullover con il colletto bianco e un cappello di pezza come divisa (diceva che lo proteggevano dal sole e dagli schizzi di fango), un pupazzetto dietro la porta come amuleto, e nasce il mito di Zamora “El Divino”. Nel ’22 torna all’Espanyol dopo una litigata con il presidente del Barcellona Gamper; il prezzo da pagare per la sua condotta di vita poco salubre è un precoce declino fisico, che però non gli impedisce, nel 1930, di passare al Real Madrid (per l’astronomica cifra di 100mila pesetas) e vincere due titoli nazionali, che si sommano ai cinque campionati catalani vinti con i due club di Barcellona. Chiude nel Nizza in Francia, paese nel quale era fuggito allo scoppio della guerra civile spagnola.

Dino Zoff. DinoMito campione del mondo a quarant’anni, record di longevità mai battuto. Giusto risarcimento per una carriera iniziata al rallentatore, a 14 anni troppo mingherlino per gli osservatori di Inter e Juventus e perciò scartato. Anni di gavetta a Udine e Mantova tra Serie A e B, con uno stile sobrio, calmo e professionale diventato un autentico marchio di fabbrica. Finalmente in nazionale grazie al Napoli a 26 anni, campione d’Europa nel ’68, retrocesso a riserva di Albertosi ai Mondiali messicani del ’70, quindi la prima grande rivincita, 1143 minuti di imbattibilità in partite ufficiali con la maglia della nazionale. Lo interrompe il più improbabile degli attaccanti, l’haitiano Emmanuel Sanon. Troppo tardi per fermare il motore diesel Superdino; sei scudetti, due Coppe Italia e una Coppa Uefa in undici stagioni di Juventus, più l’apoteosi del Mundial ’82. Vinto da capitano. E da icona.

Alec Cordolcini
wovenhand@libero.it

(per gentile concessione dell’autore, fonte: Eurocalcio numero 88 del gennaio 2008)

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