Attualità
Maccarani e il culto della debolezza
Stefano Olivari 03/10/2023
Confrontate lo spazio dato dal giornalista collettivo all’ammonizione, stiamo parlando soltanto di giustizia sportiva, di Emanuela Maccarani, dall’accusa di abusi psicologici nei confronti di due atlete della nazionale di ginnastica ritmica, e quello dato alla vicenda durante i mesi di accuse di ogni tipo in cui l’allenatrice delle Farfalle è stata fatta passare per la strega cattiva che vessava ragazze chiuse in palestra con la forza. Insomma, discorsi già fatti: l’accusa fa vendere più della difesa, al di là della fondatezza di entrambe. Non è nemmeno un discorso politico, perché le due atlete, Nina Corradini e Anna Basta, hanno trovato sponde (dal ministro Abodi) e visibilità (Verissimo, eccetera) un po’ ovunque.
È un discorso, che uscendo dal caso specifico e dai suoi aspetti grotteschi (l’espressione “Eccesso di affetto” usata dal procuratore federale, ma anche la stessa ammonizione: cosa vuole dire?), riguarda un argomento più importante, con tutto il rispetto, della ginnastica artistica, e cioè il vittimismo e il culto della debolezza che caratterizzano gran parte della società del fu Occidente ma che fino a poco tempo fa non avevano cittadinanza nello sport. Certo chi perdeva in discipline in cui gli arbitraggi hanno un peso si lamentava, ma perché riteneva di meritare la vittoria e non perché volesse essere compatito o trattato da fragile, una volta si sarebbe detto minorato.
La cosa veramente eversiva, per come è strutturata la società di oggi, detta dalla Maccarani in varie interviste (qui quella a Sky Sport), è quasi banale: l’agonismo sportivo non è per tutti, a qualsiasi livello superare l’asticella richiede motivazioni e allenatori che queste motivazioni le facciamo scattare. C’è tutta una retorica sull’allenatore o sull’insegnante che è come un padre (o una madre), ma è stupidissima oltre che offensiva nei confronti dei veri genitori. Che possono e devono occuparsi delle fragilità dei figli perché non c’è un risultato da raggiungere, per lo meno un risultato misurabile. L’allenatore è un’altra cosa. Ma soprattutto essere un atleta di vertice non è un diritto né un dovere.
Chiunque è in grado di capire la differenza fra una vita normale, in cui in qualche modo si va avanti (e comunque in tanti non reggono nemmeno l’ordinaria amministrazione), e l’inseguimento di una medaglia olimpica, per cui qualche grammo di peso può fare la differenza. La body positivity può funzionare se uno fa il commercialista o il panettiere, non se quei pochi grammi possono decidere una carriera. In generale chiunque è in grado di capire che veniamo costantemente giudicati e che il giudizio può anche essere negativo. La modalità boomer ci porterebbe a confinare questo atteggiamento nei giovani, ma sarebbe sbagliato, perché anche anziani e VIP hanno scoperto che il vittimismo ed in ogni caso l’ostentazione delle proprie debolezze, quando non addirittura delle proprie malattie, sono adesso socialmente accettati e addirittura esaltati.
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