Le cicatrici di Girardelli

22 Gennaio 2010 di Simone Basso

di Simone Basso

Il fine settimana più religioso dello sci alpino, con la visita dei fedeli alle pendici del monte sacro dell’Hahnenkhamm, ci suggerisce un omaggio a una delle icone più ortodosse della grande tradizione bianca. Marc Girardelli, con il suo carico pesantissimo di cinque Coppe del Mondo generali, incarna ancora oggi l’archetipo massimo dell’atleta polivalente.

Fuoriclasse dalla storia incredibile, irripetibile Araba Fenice priva di Purgatorio; solo Paradiso ed Inferno, in un’anabasi senza pari nella cronaca dello sport recente.

Il Gira cominciò a gareggiare a sette anni e fin dalle prime competizioni si capì l’eccezionalità del suo talento: per molti osservatori, quel pupo che vinse il Trofeo Topolino e l’Ovo Grand Prix sembrò una profezia felice, ovvero la reincarnazione moderna del leggendario Toni Sailer. Ma il ragazzo di Lustenau, a soli tredici anni, fu al centro di un contenzioso tra la federazione austriaca ed Helmut Girardelli, il babbo di Marc.

Personaggio controverso, fumantino, nonchè uomo con idee tecniche differenti dai dirigenti del cosiddetto Wunderteam; le posizioni inconciliabili delle due parti portarono a un gesto storico del padre padrone, che chiese (ed ottenne) la licenza lussemburghese per le gare del figlio. Quello strappo, a dir poco epocale, costerà una solitudine cosmica ai Girardelli, nonchè il boicottaggio politico da parte dell’entità che gestisce da sempre (tramite una marionetta con ventriloquo..) il circo bianco.
Con le conseguenze agonistiche facilmente intuibili: budget limitati rispetto ai professionisti di stato, tracciature e preparazioni delle piste sfavorevoli, calendari assassini per gli all around… Papà Helmut scelse la libertà del figlio, consapevole che quello schiaffo sarebbe stato pagato negli anni, ma dimostrò vivaddio alla perfezione un teorema scomodo: l’inutilità a qualsiasi livello dei federali, nosferatu che promuovono soprattutto se stessi ed il carrozzone parassita che li giustifica.  E sorvoliamo sull’assenza di proposte (visto che nonno Girardelli crebbe in Valsugana) della FISI dell’epoca, evidentemente obnubliata dalla sbornia della Valanga Azzurra.
A diciassette anni apparì alla Coppa del Mondo (Carmelo Bene docet) arrivando secondo nello speciale di Wengen, tra Bojan Krizaj e il mammasantissima Ingemar Stenmark: era il 1981 e sembrò imminente l’esplosione. Ma le vicende del Gira cominciarono a ricalcare l’andamento di un sismografo impazzito; una lista ascetica ed incompleta, in rigoroso ordine cronologico, illustrerebbe meglio di mille panegirici le vicissitudini del favoloso Marc. L’odissea cominciò nel 1982 e proseguì per il resto della carriera; ebbe quattordici (!) interventi chirurgici alle ginocchia: il primo, effettuato da un luminare del settore (il dottor Steadman) che predisse difficoltà future del nostro a…camminare normalmente! Dopo il secondo invece si riscontrò una disabilità del quindici per cento al ginocchio sinistro. Eppure, puntualmente, tornò ogni volta mosso da una determinazione feroce, immanente.
Realizzò tutte le promesse tramutandosi in un vincente onnivoro, a dispetto del dolore di quegli incidenti che lo resero nietzschianamente sempre più forte. Ebbe un contraltare generazionale perfetto in Pirmin Zurbriggen, l’elvetico con il quale divise il possesso della coppa di cristallo, ed un avversario antitetico in Alberto Tomba, valentinorossi dei Novanta.
La stagione 1989 fu il suo capolavoro: vinse in tutte e cinque le specialità, record poi eguagliato dal solo Bode Miller, e dominò le discese monumento come la Streif ed il Lauberhorn. La singolarità di questo campione risiedette in un particolare che modificò le prospettive: come affermò il grande Rolly Marchi, destabilizzando i cortigiani dell’Alberto nazionale, Girardelli fu il fuoriclasse più naturale di tutti. Al contrario dei Maier e dei Tomba, che furono fenomenali grazie al loro fisico michelangelesco, il lussemburghese lo fu a dispetto di quel corpo martoriato dalla sfortuna; perchè vantò coordinazione motoria e sensibilità tecnica di un altro pianeta, un caso einsteiniano di riprogrammazione istintiva delle proprie virtù psicofisiche. Per comprendere l’eccezionalità del soggetto bastava assistere ai suoi allenamenti, stakanovisti e spartani: Helmut e Mark a fare tutto, prelevando il materiale da un pullmino anonimo; niente staff personale e posse al seguito. Nel 1990 al Sestriere il momento più tremendo, quando una caduta lo portò a un passo da diventare paraplegico; il de profundis cantato dai media si spense l’anno dopo con l’ennesimo ritorno vincente e la quarta Coppa. Da brividi il suo dominio nello slalom di Kitzbuhel: in condizioni difficili di neve scese con l’eleganza e la sicurezza di un ballerino, con quello stile inimitabile.
Non ebbe mai la soddisfazione dell’oro olimpico, saltò due edizioni per problemi burocratici, perdendo sempre in circostanze sfavorevoli: la scelta del numero di partenza sbagliato, nella discesa di Lillehammer 1994, lo privò di un’affermazione probabile. Due anni prima, ad Albertville nel Gigante, scontro titanico con Tomba; il finale, serrato ed avvincente, nascose le dinamiche moderne dello sci milionario: fu il Cotelli catodizzato, nell’approfondimento della seconda manche, che dimostrò un assioma che determina l’andamento di certe competizioni. L’Alberto, in ritardo fino alle ultime porte, lo superò nel piano per un evidente divario di performance dei materiali utilizzati; cioè la cambiale eterna che pagarono i Girardelli nell’affrontare gli squadroni. Queste considerazioni tecniche dovrebbero essere ribadite ad ogni rassegna a cinque cerchi; tanto per non far passare la Ceccarelli di turno (ovvero la vincitrice di una lotteria) come la nuova Annemarie Moser-Proell
Prima del crepuscolo sportivo il Gira fece il pokerissimo, respingendo l’assalto di un rampante Kjetil Andre Aamodt alla sua maniera: corse le ultime otto gare della stagione con il crociato del ginocchio destro a pezzi, ribadendo una volontà e una durezza mentale spaventose, superomistiche. L’addio nel 1997 fu all’agonismo, certamente non allo sci: come un delfino che nuota nell’acqua, Mark continua a sciare esprimendo una passione totale, infinita. Sulle ginocchia, quattordici cicatrici ci ricordano l’amore folle di questo grandissimo per lo sport della neve.
Simone Basso
(in esclusiva per Indiscreto)

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