L’ambiente di Favero

23 Luglio 2007 di Alec Cordolcini

Pianiga (Ve) – Una vita da gregario, quella di Luciano Favero. Una vita spesa su quei campi da calcio in cui ha saputo trasferire la ferrea volontà delle sue origini contadine, lui, partito dalla campagna veneta e finito campione d’Europa e del mondo con la Juventus di “le Roi” Michel Platini. Dicevano che era un terzino grezzo e che a Torino sarebbe rimasto giusto il tempo per essere utilizzato come contropartita per l’acquisto di Bruno Giordano dalla Lazio, invece disputò cinque stagioni da titolare rivelandosi un difensore completo e a suo modo eclettico. Poi è tornato dove tutto aveva avuto inizio, nella sua terra, alle sue origini; poteva finire a fare la macchietta in una di quelle emittenti televisive locali che sragionano con regolarità settimanale di moviole e complotti, invece ha scelto l’anonimato e la compagnia dei pochi amici, quelli veri, quelli che rimangono quando lo champagne finisce e si torna a bere acqua minerale. Il calcio però non è mai uscito dalla sua vita, ed è proprio su un campetto a cinque del centro sportivo Hakuna Matata di Pianiga, al termine dell’allenamento con la sua squadra, il Blue Gate, che riusciamo ad incontrarlo. Baffi ingrigiti, fisico da 50enne robusto ma in buona forma, discreta disponibilità ad aprire il libro dei ricordi. “Nessuna domanda sulle donne”, mi ammoniscono i compagni di squadra, “non ne ha mai parlato nemmeno con noi”. Salvo che non si tratti della Vecchia Signora.

Un amico antijuventino mi ha confessato che fu molto deluso da te. Come sostituto di Gentile si aspettava un mezzo bidone e invece ti rivelasti un ottimo mastino d’area.
”Inizialmente l’ambientamento in casa Juventus fu abbastanza problematico. I primi due mesi ero piuttosto titubante, giocavo teso, sapevo che la gente ricordava Gentile e pertanto si aspettava un certo tipo di rendimento; in più mi trovavo in una squadra piena di nazionali, da Platini a Boniek fino a Cabrini e tutti gli altri azzurri. Poi contro il Napoli Trapattoni mi mise in marcatura su Maradona, riuscii ad annullarlo e mi sbloccai”.

Se hai fermato il Pibe de Oro, quale attaccante poteva metterti in difficoltà?
”Ce n’erano tanti all’epoca di bravi attaccanti, ma ricordo in particolare Spillo Altobelli. Lo perdevi di vista un solo secondo e la palla era già in fondo alla rete”.

La stagione 84-85 e le due successive non hai saltato nemmeno un incontro.
”All’epoca in ogni squadra esistevano undici titolari, e giocavano quasi sempre quelli. Una volta che entravi nel giro e godevi della fiducia dell’allenatore solo un infortunio o una serie di brutte prestazioni potevano farti perdere il posto. Con Trapattoni partii terzino destro e mi ritrovai centrale, come quando ci fu sostituire Scirea durante l’Intercontinentale, o anche stopper al posto di Brio. In difesa ho ricoperto tutti i ruoli ad eccezione di terzino sinistro”.

Il Trap stupì molti nel proporti al centro della difesa, ma in realtà tu quel ruolo lo avevi già ricoperto.
”La prima volta fu con la Salernitana in serie C , poi anche a Siracusa, Rimini e Avellino. Con gli irpini arrivai al debutto in Serie A, che avvenne per giunta al San Paolo contro il Napoli davanti a 80mila spettatori, e già essere arrivato fin lì per me rappresentava un grande traguardo”.

Tacconi in porta, Favero-Di Somma centrali; avversario tosto quell’Avellino…
”Vincere al Partenio era difficile per tutti, in tre stagioni ci salvammo sempre con diverse giornate d’anticipo. Ricordo un 4-0 rifilato al Milan; marcavo l’inglese Blisset e non gli feci toccare palla. Durante un’azione nei pressi della bandierina del calcio d’angolo lo superai in pallonetto e uscii dalla difesa palla al piede. Quell’azione fu scelta alla sera dalla Domenica Sportiva come immagine-chiave dell’incontro”.

Tornando alla Juve, nelle prime due stagioni hai vinto tutto; campionato, Coppa dei Campioni, Supercoppa Europea e Coppa Intercontinentale. L’unica macchia fu l’Heysel; c’è chi sostiene che quella coppa non avrebbe dovuto essere assegnata. Qual è la tua opinione?
”E’ difficile giudicare le opinioni di chi magari quella sera ha perso un famigliare o un amico. Noi giocatori, sebbene dal campo vedevamo la tribuna crollata, fummo informati che c’erano stati dei morti solo al termine dell’incontro; ci fecero giocare per ragioni di sicurezza ma fu una partita vera, questo te lo posso garantire. Poi possiamo discutere sul fallo da rigore avvenuto fuori area…”.

Contro l’Argentinos Juniors a Tokyo invece andò tutto per il verso giusto. Può essere considerato quello il punto più alto della tua carriera?
”Come ti ho già detto, per me era già il massimo aver esordito in Serie A. In Giappone Platini segnò uno dei gol più belli della sua carriera ma gli fu annullato. Ma Michel poteva fare davvero tutto”.

Si mormorava che fosse un leader anche nello spogliatoio. Confermi?
”Senza dubbio, parlare con lui era come parlare con Trapattoni o con il presidente Boniperti. Aveva un carisma innato, sapeva caricare e stimolare il gruppo. E poi, permettimi di dirlo, secondo me come calciatore era superiore anche a Maradona, perché sapeva coprire più zone del campo. Diego era un fuoriclasse dalla trequarti in su, Michel anche prima”.

Il Favero campione d’Europa e del mondo non avrebbe meritato almeno una presenza in nazionale?
”C’era stata la possibilità, ma poi si è fatto nulla. Allora in nazionale vigeva la stessa filosofia delle squadre di club: uno zoccolo duro di sedici-diciotto giocatori con un undici titolare di base. Io avevo davanti Bergomi, eroe del Mondiale ’82. Un bell’ostacolo”.

Già, soprattutto in un’epoca in cui nelle amichevoli non si schierava una sorta di nazionale B per compiacere i grandi club e nessuno si sognava di rinunciare alla convocazione.
”Proprio così. E comunque la concorrenza in difesa è sempre stata folta. Riguardo alla mia carriera non ho però alcun rimpianto”.

I successi della tua Juve non sono stati attorniati da ombre e sospetti, a differenza di ciò che è avvenuto in questi ultimi anni. Cosa ne pensi di Calciopoli?
”Se la Juve doveva pagare, e se è davvero successo tutto quello che le hanno contestato, io direi che oggi la società ha pagato ed è pulita. Ma non c’è stata equità di giudizio: le altre squadre coinvolte sono state trattate con i guanti”.

La stagione 87-88 è stata per la Juventus una delle peggiori dell’ultimo ventennio, con la qualificazione alla Coppa Uefa raggiunta solo dopo aver battuto il Torino ai rigori allo spareggio. Simbolo di quell’annata fu Ian Rush, una meteora in Serie A.
”Rush era un corpo estraneo, non faceva gruppo. Si vedeva che aveva delle qualità, basta vedere quello che ha fatto con il Liverpool sia prima che dopo il suo arrivo a Torino, ma con la Juventus non è scattata la scintilla. Non si è ambientato, e forse noi non l’abbiamo aiutato a farlo”.

Hai chiuso con il Verona, un anno in A e uno B. Fu il periodo della “fatal Verona” per il Milan di Sacchi.
”Da ragazzino tifavo Milan. Quel pomeriggio l’arbitro cacciò tre rossoneri dal campo e noi vincemmo 2-1, senza però riuscire ad evitare la retrocessione. Il rigore su Van Basten? Boskov diceva sempre che “rigore è quando arbitro fischia””.

Dopo Verona hai continuato nei dilettanti.
”Con il Verona risalimmo in A dopo una sola stagione, ma avevo già 34 anni e ho deciso di scendere di categoria. Fino al 2004 ho giocato in varie squadre dell’area veneta, Campocroce, Mestre, Mirano. Oggi mi tengo in forma con il calcio a cinque e con la Mass Media Veneto, una rappresentativa di giornalisti veneti. Facciamo partite di beneficenza, dopo ferragosto saremo a Cortina per giocare contro una selezione di Vip e altre squadre. Quando mi chiamano io vado, a staccare definitivamente la spina non ci riesc
o proprio, anche perché il fisico risponde ancora bene. La mia fortuna è stata quella di non aver mai subito infortuni gravi in carriera”.

Cosa fa oggi Luciano Favero quando non gioca a pallone?
”Fino a qualche anno fa ero socio in una concessionaria di automobili, ma non è andata bene. Oggi aiuto un amico a fare diversi lavoretti in giro per la zona”.

Mai pensato di allenare o di proporti come osservatore?
”No, non fa per me. Sono un tipo taciturno, introverso, non ho il carattere giusto per fare l’allenatore. Ancora oggi mi cercano alcune squadre locali, area veneziana-padovana, e se c’è da giocare non mi tiro mai indietro. Ma non ho il carisma adatto per allenare”.

Ti ha mai contattato qualcuno della Juventus?
”No, non ho mai ricevuto una chiamata della società né ho contatti con qualche ex-compagno”.

Segui ancora il grande calcio?
”Con meno interesse di un tempo. Compro un quotidiano sportivo alla domenica, guardo qualche partita, nulla più. Vedo molta meno passione nel calcio d’oggi, c’è troppo business e troppo denaro, ormai più che uno sport è diventato un investimento. Molti puntano il dito contro i giocatori strapagati, ma in fin dei conti loro avanzano delle richieste e se c’è chi le accetta…”

E a livello tecnico?
”I difensori sono più bravi con la palla tra i piedi ma meno efficaci in marcatura. La zona ha cambiato tutto”.

Alec Cordolcini
wovenhand@libero.it (un particolare ringraziamento a Fabrizio Mansutti)

La scheda
Luciano Favero è nato a Santa Maria di Sala (Ve) l’11 ottobre 1957 ed ha iniziato a giocare a calcio in alcune squadrette dell’area veneziana tra cui il Calvi Noale, dal quale si è poi trasferito prima al Varese e poi alla Milanese. Nel 1976 avviene l’ingresso nel professionismo in Serie C con la maglia del Messina (76-77, 37 presenze, 1 gol), quindi gioca con Salernitana (77-78, 17/0) e Siracusa (78-80, 67 /4) prima di passare in Serie B al Rimini (80-81, 38/0). Nel novembre dell’81 esordisce in Serie A con l’Avellino (81-84, 78/0), poi passa alla Juventus (84-89, 133/2), dove vince uno scudetto, una Coppa Campioni, una Supercoppa Europea e una Coppa Intercontinentale, per poi chiudere la propria carriera professionistica nel Verona (89-91, 65/0). Invia per e-mail –>

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