L’Altra Milano un anno dopo

1 Luglio 2010 di Stefano Olivari

di Stefano Olivari
Esattamente un anno fa abbiamo vissuto il giorno più bello della nostra vita, presentando un libro velleitario e costosissimo scritto insieme all’amico Giorgio Specchia. Velleitario perchè aveva l’ambizione di raccontare la pallacanestro italiana degli anni Sessanta e Settanta attraverso le vicende di una squadra sfigatissima e nemmeno romantica: una squadra come tante, senza la pretesa di avere storie uniche e personaggi meravigliosi. Costosissimo perchè ovviamente mancavano le fonti ed ogni pagina è stata frutto di ricerche, colloqui e interviste con i protagonisti dell’epoca. Nell’era di Wikipedia e del copia & incolla, per noi una boccata d’aria. Visto che si lavora (anche) per arrivare alla fine del mese, un lavoro simile ci sarebbe convenuto farlo su Inter o Juventus, non certo su una realtà che nel suo ultimo anno in serie A faceva fatica a portare al Palalido un migliaio di persone. E stiamo parlando di trenta anni fa, in un’era pre internet e pre quasi tutto, quando alla domenica pomeriggio anche a Milano non c’erano molte altre alternative. Costosissimo anche perchè la nostra inconsistenza imprenditoriale ci ha fatto sbattere contro prezzi di produzione da catalogo d’arte e solo il dio del basket ci ha impedito di essere truffati da librai più o meno amanti dello sport che meritano ampiamente di essere travolti da Amazon.
Preparati ad un bagno di sangue finanziario, dopo un anno possiamo dire di avere pareggiato fra gli applausi (pochi ma pur sempre applausi). Vendere cinquecento copie di un libro simile, visto che alla fine i tifosi erano a malapena mille e in trent’anni molti saranno morti ed altri nemmeno sospettano dell’esistenza del libro, equivale a vendere quattro milioni di un’opera sul Milan. La gioia maggiore è stata però quella di avere alla presentazione del 4-4-2, rigorosamente priva di vip (Chuck Jura sarebbe tornato in Italia solo a novembre), circa trecento persone di cui duecentonovanta non collegabili a noi in alcun modo. Mai vista questa folla alla presentazione di un libro, tantomeno un libro sportivo, ma nemmeno alla presentazione di una squadra di basket. Quasi nessuno era chiaramente venuto per noi, tutti erano lì perchè sentivano che di quell’epoca e di quella pallacanestro manca oggi qualcosa. Infatti il libro ha venduto anche a Roma, Cagliari, Gorizia, Firenze, Bologna, Ascoli, Padova. Una parte consistente del successo è stata dovuta anche chi ci vuole bene e ai tifosi Simmenthal-Innocenti-Cinzano-Billy, non certo perchè siamo gli eredi di Aldo Giordani ma perché nel nostro piccolo abbiamo colto lo spirito del tempo, di quello che fu e di questo. Lo spirito di una devozione per il gioco, con la Nba nemmeno intravista e la fiducia cieca nel futuro, al di là della nostalgia per l’infanzia perduta (ma degli orridi anni Settanta non rimpiangiamo altro, a dire il vero).  
A un anno di distanza, senza più l’ansia di vendere il libro per evitare il tracollo finanziario, possiamo fare una riflessione più ampia su quella pallacanestro e quella squadra. Possiamo farlo perchè la conoscenza diretta di molti dei protagonisti ha risposto meglio di mille inchieste alla domanda ‘Perché il basket italiano ha sempre gli stessi numeri?’. Non è un caso che Armani stia sfasciando il Palalido per farne la sua casa (nel senso di basket) per i decenni a venire, al punto che nella prossima stagione qualche partita oltre che ad Assago potrebbe essere giocata a Desio. Il Palalido, che compie cinquant’anni nel disinteresse di un’amministrazione cittadina che di fatto regala San Siro a Inter e Milan (che anche si lamentano: ma che se lo costruissero da sole, lo stadio) e organizza mostre di fotografi ugandesi dimenticando che per la mitica ‘base’ c’è un solo campo da basket a norma con parquet e tribune (è quello della Forza & Coraggio), due sole piscine di dimensioni olimpiche (di cui una privata) contro le cinquantaquattro di Roma, e via elencando. 
Tornando al basket e alla storia della Pallacanestro Milano, dobbiamo dire di avere capito perchè una seconda realtà milanese sia fallita. Con la prima che nemmeno se la passa tanto bene, schiava della retorica anche giornalistica del ‘Bisogna lottare per lo scudetto se si vuole avere spazio’. La seconda realtà è fallita per una ragione semplice e crudele: non interessava ad un numero significativo di persone. Quelle poche erano e sono, nel caso dei viventi, davvero appassionate, ma si muovevano in un contesto non molto diverso da quello di oggi. Con la Gazzetta dello Sport che prendeva in giro i presidenti che facevano promozione vera: Giovanni Milanaccio, il signor All’Onestà, che regalava migliaia di biglietti ai bambini oltre a spendere miliardi per la squadra (Bovone, Gennari e Cosmelli i colpi che fecero epoca nei tardi Sessanta), il dinamico Tino Caspani (il signor Mobilquattro, che quasi si rovinò per pagare uno Jura che voleva tutta Europa) ma anche l’eroico Fabio Guidoni, prima allenatore campione d’Europa 1978 con il Geas e poi anima di una Pall. Milano che l’anima l’aveva già persa. Nessuno di loro ha vinto lo scudetto o ci è andato vicino, pensate lo scandalo. Non siamo alla santificazione di chi paga, ma solo ad una constatazione: nemmeno le società di basket meglio amministrate possono sopravvivere unicamente grazie al pubblico. Negli Anni Settanta ma anche oggi occorre che scatti la scintilla, della passione o della convenienza, in qualcuno con soldi veri o capace di coinvolgere chi ha soldi veri. Se no le dimensioni giuste del basket italiano sarebbero quelle del dopolavoro: tanto il millesimo pick and roll fra il ragionier Rossi e il dottor Verdi ci scalderebbe come quello fra McIntyre e Lavrinovic. I vuoti al Palasclavo durante la finale scudetto spiegano meglio di noi il concetto. 
Con gli occhi di oggi ad uscirne bene sono quindi i tifosi (pochi) e i dirigenti (pochi) che hanno creduto in uno sport che per almeno un decennio è stato almeno paragonabile al calcio come interesse nelle grandi città. Non era strano sentirsi chiedere se tifavi Billy o Xerox, quando oggi invece Armani deve comprare quarti di pagina per annunciare l’orario delle partite (!). Si salvano ovviamente alcuni allenatori, che come vuole il luogo comune sono forse gli unici veri appassionati del gioco: da Riccardo Sales (alla memoria) all’onnisciente Dido Guerrieri. Ne esce bene anche qualche giocatore, guarda caso quelli che hanno avuto nella vita un certo successo anche al di fuori del basket: Guido Carlo Gatti, Antonio Rodà, Pippo Crippa, Stefano Pampana, Luigi Brambilla e Chuck Jura, non ce ne vengono in mente altri. Eppure li abbiamo conosciuti quasi tutti.
Tutte persone simpatiche e a posto, di un livello culturale medio superiore (ma non di tanto, non crediate) all’ex calciatore, senza però un interesse per la pallacanestro che andasse al di là delle proprie vicende personali. E spesso nemmeno quelle, vista la pretesa costante di copie omaggio: ma chi mai ha scritto un capitolo di un libro su Guidali, su Veronesi, sui fratelli Gergati, sul massaggiatore Redaelli? Poi noi non siamo Proust, ma nemmeno stiamo parlando di Jerry West o Bill Russell. Un micromondo di piccole invidie e piccoli rancori che ci ha fatto male conoscere, e che ci teniamo per noi per non rovinare il ricordo ad altri bambini dell’epoca. Persone che deridevano Tom Heinsohn (Tom Heinsohn!!!), otto anelli Nba con i Celtics da giocatore e due da allenatore, che era stato chiamato da Lajos Toth a fare da consulente per l’allora Isolabella. ”Ma cosa vuole insegnarci questo ubriacone, qui mica siamo in America”, discorsi ascoltati allo

ra e replicati anche oggi a dispetto di una realtà fatta di pizzerie-sponsor e di traffico di cartellini. Persone che pensavano di essere sprecate in una piccola società, ma che purtroppo per loro non avevano richieste da quelle grandi. Persone che mitizzano i Montezemolo della situazione, cioè il taumaturgo che se solo avesse voglia risolverebbe tutti problemi in un attimo: nel basket lombardo si chiama Bulgheroni. Persone che passate al giornalismo (si fa per dire) godono nel leggersi fra di loro e in fondo non vogliono che qualcuno entri nella parrocchietta, anche se messe insieme hanno meno notorietà di un bordocampista Sky del calcio di serie B (però segnalano al dirigente amico cosa ha detto il collega su di lui). Persone che hanno considerato quegli anni della loro vita come un qualcosa di poco importante, mentre per noi erano tutto.
Siamo felici di avere vissuto quell’epoca da spettatori e mini-giocatori, siamo felici di avere raccontato due decenni di piccola storia a nostre spese e senza quei contributi pubblici (il nostro segreto è che non li abbiamo chiesti né mai lo faremo, nonostante gli accattoni di professione riescano a far passare per cultura anche un formaggio o una giacca) che costringono a mettere tutti sul piedestallo del provincialismo, siamo soprattutto felici da avere fatto passare qualche ora speriamo piacevole ad almeno cinquecento persone competenti.
stefanolivari@gmail.com
(in esclusiva per Indiscreto)

Share this article