Perdenti come McGinnis e Baylor

16 Giugno 2015 di Simone Basso

A vedere Finals così particolari, una formazione come i Cavs, una delle più povere di talento complessivo ad essersi issata al massimo livello, l’amarcord diventa archeologia della pallacanestro. Re James e i LeBroners propongono dinamiche già viste nel passato (remoto). Il Ventitre Atlante, che sposta quasi da solo l’inerzia degli incontri, uno che nei primi tre incontri con i Warriors ha contribuito a 200 dei 291 punti dei suoi (!), ricorda qualcosa dell’ultima campagna ABA di George McGinnis. Che crebbe nei Pacers dinastici dei primi Settanta e poi – al declino del nucleo storico sopravvissuto (The Rajah Brown e Netolicky) – prese le redini del comando. Il 1975 divenne il suo anno: trascinò Indiana alla terra promessa, con uno strapotere fisico e un gioco che avevano parecchi punti in comune col Prescelto. Ala combo, un quattro con la mobilità e la tecnica di un tre, irresistibile in isolamento, notevole visione del campo e dei compagni, rimbalzista straordinario. Muscolare, quasi punitivo nell’uno contro uno, eccelleva nel tiro in esitazione, staccandosi dunque dal marcatore col pallone (biancorossoblu) tenuto con una sola mano, alla Connie Hawkins.

Sei triple doppie nella stagione regolare, quattro (o cinque..) nei playoffs, McGinnis strabiliò sotto le plance confezionando quattro Venti più Venti in regular e ben sette (!) nella post season: clamoroso il filotto di tre quarantelli opposto agli Spurs nella semifinale occidentale. Quella corsa incredibile si fermò solo all’ultimo atto, contro i Kentucky Colonels di Larry Brown, troppo forti e profondi (Gilmore, Issel, Dampier, Jones, etc.) per il One Man Show dell’Mvp della lega. Il torello che fu, prima dei voli di David Thompson, l’unico vero rivale di Julius Erving: se lo ritrovò – in Nba – compagno di ventura a Philadelphia in una delle edizioni più ambiziose dei Sixers. Che collassarono, nel 1977, contro la Filarmonica di Portland. Big Mac in fondo fu una meteora: finirono presto birra e motivazioni, nemmeno trentenne, ai Nuggets.

Chi invece firmò un’epoca fu Elgin Baylor. Se Jim Pollard – il Kangaroo Kod originale – portò la dimensione aerea nel basket, la Pantera di Seattle la sviluppò. L’hang-time, le improvvisazioni sullo spartito, l’uso del palleggio (e del corpo) per avvicinarsi al ferro. Baylor è stato il modello di tutti gli “esterni” atletici e creativi. L’annata da matricola, 1959, basterebbe per l’immortalità cestistica: condusse Minneapolis, una squadraccia (19-53 nel ’58), finanziariamente prossima alla bancarotta, allo showdown con Boston. Nemesi e maledizione di un Grandissimo che, proprio a causa dell’epopea di Auerbach e Russell, non vinse mai un titolo. L’uomo che piazzò i Lakers a Los Angeles, tre anni più tardi – durante il servizio militare – fu protagonista di Finals leggendarie. I Lacustri, quella volta più competitivi (c’erano Jerry West, Rudy LaRusso, Frank Selvy), persero alla bella coi soliti Celtics, di tre, al supplementare, con un Baylor esausto quanto irreale (41 punti e 22 rimbalzi). La tabella di marcia delle sei precedenti contese? 35, 36, 39, 38, 61, 34. Oggidì, nello scorrere liquido del villaggio globale, un bel po’ di semplificatori integrali lo definirebbe un perdente.

“Lo chiamavano Baby Gorilla perchè con la sua forza bruta, dopo una sconfitta nel campionato universitario americano Ncaa, per la rabbia scardinò dagli spogliatoi un lavandino e lo gettò dalla finestra.” (Giorgio Viberti, La Stampa). A fare gli umarell, dei giornali e della rete, accatastiamo mensilmente montagne di perle prese dai cessi. Nel caso specifico, considerando che Darryl Dawkins non giocò mai al college, vorremmo liberare la fantasia e – siccome ormai vale qualsiasi cosa – inventarci la nostra versione dei fatti. Chocolate Thunder fu soprannominato Baby Gorilla perchè, entrato nella crew P-Funk, trasportava da solo le tastiere di Bernie Worrell. E, se rimaneva dello spazio, pure la valigia speciale di George Clinton, zeppa di costosissimo e pregiato borotalco da naso. “Free your mind, your ass will follow.”

Simone Basso, in esclusiva per Indiscreto

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