In fondo a destra

10 Aprile 2012 di Italo Muti

di Italo Muti
La musica italiana non è fatta solo di Rose rosse, di Piccola Katy, di Sanremo più o meno truccati, di cantautori celebrati, di gruppi e solisti che scimmiottano tendenze inventate altrove. Ha anche nicchie che, seppur piccole, resistono con il perpetuarsi di onde che divengono sempre più forti nell’immaginario dei ragazzi, nonostante il rifiuto completo di mezzi da parte delle etichette più importanti. Mezzi che non si negano né al clone di qualcuno già famoso né alla ragazza televotata: rispetteremmo comunque il marketing, se solo di marketing si trattasse. La meno conosciuta di queste nicchie, per i media mainstream, è quella della musica di destra. E’ una storia lunga quella che lega la destra italiana alla musica, una strada quasi negata dai più, ma sempre vivida di talenti e indistruttibile, quasi come le canzoni di Marcello de Angelis, da Eri Bella a Nanni è partito. L’esistenza destrorsa silente (secondo il discutibile teorema che chi non è impegnato sia necessariamente di destra) di Lucio Battisti e la sua uscita dalla televisione di stato nei primi anni Settanta, senza che ci fosse una motivazione esplicita se non quella strisciante extraparlamentare dell’impegno a sinistra, sono lì a testimoniare che una destra in Italia non dovesse più esistere, insieme ai suoi simboli, in nessun campo.
Ma più stringi il cappio, più la gente scappa e si ritrova in piccoli antri dove lo stare insieme corrobora lo spirito e la mente. Come carbonari del tempo, la musica indicò la strada frostiana da seguire, the road not taken, solitaria solo nei primi passi per poi affluire in piazze più frequentate. A Milano c’è lo Spazio Ritter, dove si possono trovare i cd degli Zeta Zero Alfa, degli Hobbit o i libri di Brasillach, di Cèline, di Evola ed altre cose con una precisa matrice identitaria, due stanzette dense di prodotti che simboleggiano il diritto ad esistere, negato per almeno trenta anni. La musica destrorsa ha viaggiato molto e dalla poesia di De Angelis, malinconica e collegata agli anni Settanta, anni di piombo e mazzate, di sbagli e di pianti, si passa a quella degli Hobbit, nostalgica e lenta nel suo defluire, a quella radicale dei Gesta Bellica robustamente metal, a quella dei Non Nobis Domine, gruppo triestino-istriano dove molti testi erano di Cristian Pertan, vera mente identitaria della città alabardata, per arrivare agli Ultima Frontiera, che spaziano dal nostalgico al rockettaro senza pretese, per giungere al patriottico. Da segnalare anche donne come Aufidena, surreale, irriverente, unplugged, con un certo fascino.
Alcune canzoni sono un simbolo, delle vere e proprie parole d’ordine che ne sono il bello e il limite intrinseco stesso, impedendo un allargamento del cosiddetto mercato. Se i cd non vendono tantissimo, anche se si trova di peggio fra i cantanti generalisti, i cantanti della nicchia destrorsa riescono lo stesso a sopravvivere con i concerti che fanno da richiamo proprio perché di parte, comunitari, e il relativo merchandising che, proprio perché fatto in famiglia, evita i falsi da bancarella di fronte allo stadio. Venendo al nostro mondo irreale, che va dall’effimero all’ipertecnologico, la nicchia della musica di destra, sia radicale che identitaria, ha resistito nel tempo ed incomincia ad avere appeal, lanciata anche dal web che, come una freccia invisibile, non ha i limiti dettati dai padroni del vapore, ma consente una diffusione più libera e senza pregiudizi.

Italo Muti, 10 aprile 2012

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