Falko a metà

26 Marzo 2007 di Alec Cordolcini

2 novembre 1983, una data che Falko Götz non dimenticherà mai. Quel giorno la Dynamo Berlino, la sua squadra, si apprestava ad affrontare il Partizan Belgrado per il ritorno degli ottavi di finale di Coppa dei Campioni. Le premesse per i tedeschi (dell’Est) erano buone, grazie al 2-0 raccolto a Berlino nell’incontro di andata, e le possibilità di accedere nuovamente ai quarti di finale della manifestazione per la prima volta dalla stagione ’79-80, assolutamente tangibili. Quel giorno però la qualificazione non era in cima ai pensieri di quel 21enne centrocampista a spasso per il centro di Belgrado guardando distrattamente le vetrine dei negozi. Fu un attimo, poi il tempo sembrò scorrere più lentamente. Falko e il compagno di squadra Dick Schlegel fermarono un taxi e chiesero, in un russo zoppicante, di essere accompagnati all’ambasciata della Germania Occidentale. Il conducente non batté ciglio e nel giro di dieci minuti li portò a destinazione; da lì in poi tutto sarebbe stato una formalità. Trasferimento a Zagabria, quindi treno per Monaco di Baviera, giusto il tempo per scendere e leggere i giornali. “Giocatori della Germania Orientale scomparsi a Belgrado: dove sono finiti?”. La sconfitta di misura (0-1) subita dalla Dynamo sembrava interessare ben pochi. Götz era diventato Die Flucht, il fuggitivo. Non era la prima la volta che il giovane aveva pensato alla fuga; già durante la trasferta in Lussemburgo per il primo turno di Coppa Campioni, da disputare contro il Jeunesse d’Esch, l’idea gli era balenata in mente. Trovandosi però nella parte occidentale della cortina di ferro la dirigenza della Dynamo, club che faceva capo alla polizia segreta del regime (la Stasi) comandata da Erich Mielke, aveva intensificato i controlli sui giocatori. Troppa gente si aggirava nell’albergo dei tedeschi per poter rischiare, meglio aspettare occasioni più propizie. Come a Belgrado. “Sono scappato principalmente per ragioni sportive, non politiche”, ricorda Götz. “Volevo giocare per un grande club in un grande campionato. Il calcio nella DDR era arretrato, io già a 21 anni giocavo nella squadra migliore del paese, non avrei più avuto nessun ulteriore margine di crescita. Volevo di più”. Possedeva talento, tecnica e spirito di sacrificio Götz, centrocampista offensivo dal piede educato e dall’ottima visione di gioco, e rimanere confinato nella Oberliga significava vedere sfiorire le proprie qualità piuttosto che coltivarle, tanto più che dall’inizio degli anni Ottanta sfacciate manovre politiche avevano ulteriormente impoverito il calcio della Germania dell’Est e il suo campionato, trasformato in un torneo a senso unico in cui la Dynamo Berlino (dieci titoli nazionali consecutivi dal 1979 al 1988) regnava incontrastata facendo il bello e il cattivo tempo, spesso con l’ausilio di metodi non propriamente legali e puliti. La scelta di Falko Götz può essere compresa ancora meglio lanciando un’occhiata alle origini del giocatore; nato il 26 marzo 1962 a Rodewisch, città nei pressi dei confini con Polonia e Cecoslovacchia, una settimana dopo il lieto evento la sua famiglia si trasferisce a Berlino, in un appartamento a pochi passi dal famigerato Muro e dalla Sonnenallee, la strada che iniziava nella Repubblica Democratica Tedesca e terminava in quella Federale. I genitori gestiscono una panetteria a Bergfelde, la Bäckeri Götz ed il piccolo Falko, cresciuto quotidianamente a contatto con quella che lui stesso definisce “un’opprimente anomalia architettonica”, si innamora ben presto del calcio, iniziando a mostrare il proprio talento nel Worwärts Berlino, finché su di lui non si posano gli occhi di qualche talent scout della Dynamo particolarmente attento. Basta poco però per accorgersi che al di fuori dei confini nazionali c’è un calcio molto diverso da quello con il quale è abituato a misurarsi. Dalle pagine del Die Sportschau, il programma che presenta le partite di Bundesliga e che a volte era reperibile anche dall’altra parte del Muro, impara a conoscere le grandi squadre del calcio tedesco, Bayern Monaco, Borussia Mönchengladbach, Amburgo, oltre a quella che decide essere la sua squadra del cuore, l’Hertha Berlino, club di Berlino Ovest, quella che, a dispetto delle divisioni politiche e della Guerra Fredda, resta pur sempre la sua città. Il suo idolo è Karl-Heinz Rummenigge, poi ci sono giocatori quali Lothar Matthaüs e Rudi Völler, più grandi di lui solamente di un paio d’anni, ma già in grado di misurarsi con la crema del calcio europeo. Inoltre ci sono le trasferte con la nazionale giovanile della DDR in Grecia, Italia e Spagna. “Già dal mio primo viaggio all’estero ho capito che il mio futuro sportivo sarebbe stato lontano dalla Germania Est. Fuggire però non è stato facile, perché ha significato tagliare i ponti con tutto e tutti, genitori, parenti, amici. Tenere i contatti era praticamente impossibile; dall’83 all’89 (anno della caduta del Muro, ndr) ho visto mia padre una sola volta, durante una vacanza in Ungheria, e mai mia madre. In Germania Ovest ho trovato parecchie persone che mi hanno aiutato ad ambientarmi, ma non mi sono mai sentito completamente a casa. Nella DDR non ero libero, nella BRD nemmeno”. Il primo club di Bundesliga in cui ha militato Falko Götz è stato il Bayer Leverkusen (anche l’altro fuggitivo Schlegel fu ingaggiato dai rossoneri), con il quale ha però potuto scendere in campo per la prima volta solamente nel novembre del 1984 (contro l’Arminia Bielefeld, subentrato all’82esimo minuto al posto del futuro attaccante del Bologna Herbert Waas) a causa di una squalifica di dodici mesi comminatagli dalla FIFA per la fuga di Belgrado. Poi tutto è ripreso a scorrere naturalmente, anche se la paura di qualche rappresaglia non era aliena dai pensieri del nostro. Poco tempo prima era infatti perito in un incidente stradale Lutz Eigendorf, fuggito dalla DDR (e dalla Dynamo Berlino) nel 1979 per giocare nel Kaiserslautern. Le circostanze erano poco chiare, la presenza dello zampino dalla Stasi era più che un sospetto, come confermato da alcune fonti emerse dopo la riunificazione della due Germanie. “Eigendorf però amava essere una persona in vista, rilasciava interviste, una volta si fece fotografare davanti al Muro di Berlino. Io ho sempre preferito adottare un profilo più dimesso”. Nel 1988 arriva il più grande successo sportivo di Falko Götz; il suo Bayer Leverkusen, guidato da colui che è unanimemente riconosciuto quale il miglior calciatore sud-coreano di sempre, ovvero Cha Bum-Kun, conquista ai danni dell’Espanyol la Coppa Uefa ribaltando in Germania lo 0-3 subito a Barcellona e quindi imponendosi ai rigori. La stagione successiva Götz se ne va al Colonia, e veste sempre la maglia del Colonia quando il 9 novembre 1989 il Muro di Berlino viene abbattuto. Decine di migliaia di persone si radunano attorno alla Porta di Brandeburgo per festeggiare, lui fisicamente non è in loco, ma la mente non può che essere lì. “Passai l’intera sera e tutta la notte davanti al televisore a vedere quelle immagini di gioia. Per la prima volta nella mia vita quel giorno mi sono sentito un uomo libero”. Alla fine Falko Götz è riuscito a giocare nuovamente per un club di Berlino, e proprio il suo Hertha per giunta; è accaduto nel gennaio del 1996, dopo un ottimo biennio passato in Turchia nel Galatasaray (due campionati, una Coppa e una Supercoppa di Turchia vinti) e un’altra esperienza in patria con il Saarbrücken. All’Hertha, all’epoca militante nella Zweite Bundesliga (la Serie B), ha chiuso la sua carriera da calciatore professionista (392 presenze e 80 reti in totale, Oberliga compresa) e ha iniziato quella da allenatore, prima della squadra amatori, poi delle giovanili, infine della prima squadra, per un legame che, salvo una puntata tra il marzo 2003 e l’aprile 2004 a Monaco per guidare il Monaco 1860, prosegue tutt’oggi. Il Falko è finalmente volato a casa.

Alec Cordolcini
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