Diamond nel cuore

20 Settembre 2007 di Stefano Troilo

Certa musica degli anni Ottanta impone il rispetto dei posteri. Soprattutto la dance “made in Italy”, finita nelle discoteche e nelle colonne sonore di serial-cult come “I ragazzi della terza C” e “Professione vacanze”. Grazie ai sequencer dal suono “rotondo”, alle melodie facili da memorizzare ed ai motivetti spensierati, le star della “italodisco” – la definizione deriva da una compilation tedesca a tema – hanno riempito, e bene, lo spazio tra il punk plumbeo di fine anni Settanta e le crisi d’identità degli anni Novanta.
Molte canzoncine “made in Italy”, o di provenienza estera ma ascrivibili al filone “italodisco”, hanno infatti trovato la propria giustificazione nell’edonismo tipico di una decade da qualcuno definita “dell’individuo”. L’essenza scanzonata ed i richiami yuppie della “italodisco” hanno inoltre causato la scomunica da parte della cosiddetta “cultura di sinistra”, favorito l’aprioristica collocazione a destra dell’intero genere e dato corda ad inquietanti paralleli con gli anni Trenta, quando le camicie nere godevano del massimo consenso popolare. Già. Nell’epoca fascista la hit era “Mille lire al mese” ed in quella yuppie “Diamond”, sulla copertina del cui quarantacinque giri era stampata proprio una banconota con il faccione di Giuseppe Verdi, ritrovatosi suo malgrado tra i simboli dell’epoca paninara. Ma era tanto difficile ammettere che quelle canzoni erano fatte bene (godevano dell’approvazione dei Pet Shop Boys e Neil Tennant ne andava matto) e si rivolgevano senza distinzione a compagni romantici, camerati playboy e sfigati bipartisan?
Senza scomodare Gazebo e la sua “I like Chopin”, “Mon amour” dei Deblanc è una lunga dichiarazione d’amore che culmina con la frase “It’s magic when you tell me ‘Baby, je t’aime’”, con accenni alle bellezze di Portofino ed innesti di archi stile Carrara (quello della fighettissima “Shine on dance”). Peana all’amore fisico sono invece il testo di “Bad boy” di Den Harrow, che mette sullo stesso piano biondine, brunette e diversi tipi di sigarette, ed il video di “Looking for love” di Tom Hooker: il cantante venuto dagli States appare in trench sulle porte di un gay-club, dall’interno del quale alcune ragazze (cotonate e truccate di tutto punto) gli ammiccano maliziose.
Niente male anche il filone “fantasy”, che portava in pista i racconti per bambini. “King Arthur” e “Lancelot” di Valerie Dore sono degne risposte on the groove alla vicenda del cavaliere fuggiasco cantata da Maggie Reilly in “Moonlight shadow” di Mike Oldfield. Lecito chiedersi semmai per quale motivo nessuno abbia ricavato un ballabile dalla saga de “Il signore degli anelli”: poca solerzia da parte sua o scarsa incisività del racconto di Tolkien? “Aliens” dei Radiorama e “Woodie boogie” di Baltimora sono onesti tributi ad una categoria di mostri nati sulla scia di “E.T.” e ad un picchio che si guadagnava la giornata uccellando bestie più grosse di lui.
Cosa dire infine di “Turbo Diesel”? Un autentico inno generazionale in cui Albert “One” Carpani passa in rassegna tutte le marche automobilistiche – dalla Bentley alla Ferrari, fino alla Mercedes “so classic and so chic” – perché vuol diventare l’eroe del gran prix: sogno ripreso anche da qualche figlio dei ragazzi dell’85, sebbene diventare tronista sia molto meno faticoso.

Stefano Troilo
stefano.troilo@jayculture.com

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