Corpo non diplomatico

25 Settembre 2007 di Alec Cordolcini

Si presentò a Leverkusen con cinque cani da combattimento, un cavallo, dieci guardie del corpo e una facilità di corsa pari a quella di un 40enne che ha nei polmoni qualche pacchetto di sigarette di troppo. Eppure trovò il modo di segnare un incredibile gol da centrocampo che venne premiato come rete dell’anno in Bundesliga, poi litigò con mezza squadra e venne messo fuori rosa, salvo venire reintegrato dopo aver vinto una causa in tribunale. Ma francamente non c’era bisogno di quel finale di carriera con il Bayer per capire che Bernd Schuster era uno che non aveva paura di niente e di nessuno, un cavallo pazzo impossibile da costringere al pascolo negli angusti steccati della quotidianità. Proveniva da 13 anni di Liga Spagnola in cui, tanto per non farsi mancare niente, era passato prima dal Barcellona al Real Madrid e poi dalle Merengues all’Atlético Madrid, venendo eletto per due volte miglior straniero del campionato spagnolo e addirittura sopravanzando Alfredo Di Stefano e Johan Cruijff in un sondaggio lanciato tra la stampa iberica sul miglior straniero di sempre ad aver mai calcato i campi di Spagna. Il talento più puro espresso dal calcio tedesco, dicevano, dai tempi di Beckenbauer e Netzer. Eppure vestì la maglia della Nationalmannschaft solamente 21 volte, ma qui torniamo al punto iniziale, al connubio genialità-eccentricità.

Un tipo da prendere con le molle, Bernd Schuster, carattere forte, poca dimestichezza con l’arte della diplomazia, nessun pelo sulla lingua. Preferiva restare a casa a suonare al pianoforte un’aria di Bach piuttosto che uscire con i compagni di squadra nel dopopartita a fare bisboccia. Sua moglie Gabi, ex modella conosciuta in una delle discoteche più “in” di Colonia, era la classica bellezza teutonica, alta e bionda; gli faceva da agente e da deus ex machina perché senza di lei, dicevano le malelingue, il buon Bern non avrebbe firmato nemmeno la ricevuta del ristorante. 21 partite in nazionale, si diceva; poche per uno del suo calibro, sufficienti però per regalargli il primo grande successo in carriera, ovvero il campionato Europeo del 1980, giocato da assoluto protagonista tanto da meritarsi il premio di miglior giocatore del torneo. Il 21enne Schuster inventa, Allofs, Rummenigge e Hrubesch realizzano, e la Germania Ovest è campione d’Europa dopo aver primeggiato nel girone finale su Cecoslovacchia, Olanda e Grecia ed aver battuto nella finalissima di Roma il Belgio 2-1. Tre anni dopo sarà già tutto finito. Nel maggio del 1981, al termine di un incontro tra Germania Ovest e Brasile a Stoccarda, c’è da festeggiare il compleanno di Hansi Müller. A casa del giocatore ci sono tutti tranne Schuster, rientrato nel frattempo a Barcellona. Il motivo lo dichiara senza problemi il diretto interessato: “Non mi piace Hansi Müller”. Il giorno seguente arriva la chiamata di Jupp Derwall, ct della nazionale tedesca, con annesso un bel discorsetto sullo spirito di squadra. Non riesce a terminarlo, il giocatore riattacca il telefono. Da quel giorno i rapporti tra Schuster e Federazione tedesca si incrinano irrimediabilmente, finché il 29 febbraio 1984, dopo Germania Ovest-Belgio 1-0, il giocatore decide di salutare la compagnia. Alla vigilia di Mexico ’86 a capo del gruppo di persone che invoca un suo ripensamento c’è nientemeno che Franz Beckenbauer, ma la risposta è sconcertante; Gabi Schuster comunica che il marito vuole un milione di marchi per tornare a giocare. Il presidente della Federcalcio tedesca Hermann Neuberger, disperato, chiede i soldi all’Adidas ottenendo un secco rifiuto, quindi rinsavisce e manda il giocatore al diavolo. Aufwiedersehen.

Il Barcellona lo acquista per 1.8 milioni di euro dal Colonia, il club con il quale ha esordito nel calcio professionistico il 21 ottobre 1978 contro l’Eintracht, dopo essersi formato tra le fila di Sv Hammerschmiede e Fc Augsburg, entrambe squadre della sua città natale. Il Fortuna Düsseldorf gli ha appena impedito di congedarsi dal pubblico del RheinEnergie Stadion con un trofeo, la Coppa di Germania, ma lui è già un passo oltre. “La Bundesliga è troppo piccola per me, cosa posso imparare ancora dal calcio tedesco?”. Classe, creatività, carisma; impossibile per un tipo così fallire in terra di Spagna. L’avventura con il Barcellona inizia con sorrisi e strette di mano e finisce tra tribunali, certificati medici che parlano di depressione e l’accusa mossagli dal presidente Nuñez di avere qualche rotella fuori posto; nel frattempo il campo porta una Coppa delle Coppe, tre Coppe di Spagna, due Coppe di Lega (trofeo disputato solamente dal 1983 al 1986) e soprattutto quel titolo nazionale che a Barcellona mancava da undici stagioni. Poi per El Rubio de Oro arriva la sostituzione con Moratalla nella finale di Coppa Campioni contro la Steaua Bucarest con conseguente fuga anticipata in albergo e la corda, fin troppo tirata da entrambe le parti, si spezza; un anno di esilio in tribuna, un secondo di forzato rientro nei ranghi, poi ecco il “tradimento” a favore della camiseta blanca del Real Madrid. Le sue sciabolate deliziano il Bernabeu, la Quinta del Buitre (il gruppo cresciuto con Butragueño come leader: Martin Vazquez, Michel, Sanchis, eccetera) e ovviamente Schuster fanno flop in Europa (storico lo 0-5 incassato a S.Siro contro il Milan) ma in Spagna non hanno rivali, ed ecco arrivare due titoli nazionali, una Copa del Rey e due Supercoppe di Spagna in un paio di stagioni. Il bizzoso tedesco non dura molto di più, per le continue baruffe con dirigenti e compagni di squadra. Lo cercano in Bundesliga, lui spiazza nuovamente tutti e sceglie l’Atlético Madrid, “per dimostrare che in Spagna il capitolo Schuster non è ancora chiuso”. Ci riesce alla grande, con i Colchoneros che mettono in bacheca due trofei (due Coppe di Spagna) dopo ben 17 anni di rigoroso digiuno.
Schuster chiude la carriera con i messicani dell’UNAM e diventa allenatore. Parte dal basso, Zweite Liga (Fortuna Colonia e Colonia), Segunda Division (Xerez), campionato ucraino (Shaktar Donetsk), predicando un calcio offensivo in perfetta armonia con l’indole che mostrava sul terreno di gioco. Poi arriva il Levante, da dove lo cacciano a cinque giornate dalla fine della Liga con la squadra cinque punti sopra la zona retrocessione; i Granotes retrocedono, lui accetta la sfida di un’altra piccola impertinente decisa a sfidare i colossi della massima divisione spagnola, il Getafe, che conduce in un paio di stagioni a due brillanti salvezze e ad una finale di Copa del Rey, raggiunto dopo un incredibile 4-0 rifilato ai campioni di Spagna del Barcellona, con annessa qualificazione alle coppe europee. Adesso c’è la grande chance del Real Madrid, dove nell’arco di un paio di mesi la critica è passata dalle pernacchie alla magnificazione dell’estilo Schuster. Lui ha risposto dichiarando a un’emittente tedesca che a fine stagione potrebbe già fare le valigie dal Bernabeu (si parla di incompatibilità ambientale). Cavallo pazzo si, ma di razza.

Alec Cordolcini
wovenhand@libero.it

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