Simple Minds senza marketing

8 Marzo 2014 di Andrea Ferrari

Perché gli U2 e i Depeche Mode suonano negli stadi e i Simple Minds nelle discoteche? Domanda esistenziale che ci è venuta in mente durante il recente concerto del gruppo scozzese in un Alcatraz gremito (ai proprietari la definizione di discoteca potrebbe andar stretta, ma tant’è). L’aspetto un po’ bolso di Jim Kerr e Charlie Burchill trae in inganno perché sul palco della discoteca milanese fanno ancora una signora figura ed il concerto, nonostante la fastidiosissime braccia alzate per fare foto e video osceni (ne avevamo già parlato qui), è stato una cavalcata trionfale tra grandi classici. Un repertorio come quello dei Simple Minds possono vantarlo in pochi.

E a dimostrazione di ciò basterebbe citare il numero di ottimi pezzi esclusi dalla scaletta: da “Speed your love to me” e “Up on the catwalk” alla snobbatissima “Mandela Day” fino alle più recenti “Hypnotized” e “Glitterball”, canzoni che non hanno sfondato, ma che se interpretate da gruppetti con il taglio di capelli e le giacche giuste avrebbero raccolto certamente di più, se non altro agli occhi di certa critica “poser”.

Tornando alla domanda iniziale va detto che, al contrario di U2 e Depeche, negli ultimi 20 anni  di album memorabili non se ne son visti, anzi, nei vari “Neapolis” e “Cry” salviamo i single e pochissimo altro e quando Bono & C. uscivano con “Achtung Baby” la band di Jim Kerr rispondeva con una mezza ciofeca come “Real Life”… Ma una risposta del genere sarebbe riduttiva perché di band che, nonostante album scarsi, han continuato ad avere grande successo nei tour, ce ne vengono in mente parecchie. E allora bisogna tornare a “Real Life” e alla sua tremenda copertina per capire che la band scozzese ha la sfortuna di non essere né cool né portabandiera di una certa nicchia (come i Cure con i dark) per avere successo in anni dominati dal marketing e dall’immagine.

Share this article