Serotonina, Houellebecq prima dei gilet gialli

24 Gennaio 2019 di Stefano Olivari

Il settimo romanzo di Michel Houellebecq, Serotonina, come quasi tutti gli altri (fa eccezione Sottomissione) parte dalla deriva della classe media acculturata francese, la base della cosiddetta opinione pubblica. Florent-Claude Labrouste è infatti il classico  protagonista alla Houellebecq: benestante ma non ricco, consapevole della vuotezza della sua vita lavorativa, senza veri amici, ossessionato dal sesso, senza grandi passioni ma con molti ricordi, disgustato e al tempo stesso affascinato dall’essere soltanto un consumatore. Consulente del ministero dell’agricoltura, è arrivato a Parigi dalla provincia e deve convivere con una fortissima depressione, curata con un farmaco, il Captorix, che lo aiuta ad arrivare a fine giornata ma gli toglie anche la libido. Senza che a lui dispiaccia, visto che al sesso pensa come qualcosa del passato vissuto con le donne che hanno significato qualcosa: Kate quando studiava agraria, l’attrice fallita Claire, la stagista e poi veterinaria Camille, la giapponese Yuzu. Anche se per tre quarti di libro si parla dei suoi fatti privati, è chiaro che la depressione di Florent non deriva soltanto da fatti privati ma da un mutamento epocale che sta subendo la Francia per via della globalizzazione: non soltanto l’impoverimento della classe media, ma la scomparsa fisica della Francia di provincia, a livello di economia. Ridotta a piccoli commerci, ad alberghi semivuoti tranne che in poche località di grido, a una lenta svendita delle proprietà del passato, alla fine della sua spina dorsale storica, l’agricoltura. Sia a livelli bassi sia a quelli delle cosiddette eccellenze, che non tengono più a galla il sistema.

I temi economici noi devoti dello scrittore francese li avevamo in parte trovati anche in La Carta e il territorio, ma lì c’era molta più ironia e soprattutto si parlava di industria. L’agricoltura è un’altra cosa, proprio sentimentalmente: è la Francia profonda, quella che ha dato il suo sangue in guerre inevitabili e in altre assurde, una Francia che può essere di destra o di sinistra ma sicuramente non parigina. La Francia che gira in auto, per la semplice ragione che deve coprire distanze non copribili in bicicletta. La chiave di Serotonina non è infatti nelle noiose descrizioni sessuali, sia pure nella chiave del ricordo, o in un nichilismo compiaciuto e macchiettistico, ma nel rapporto con Aymeric, suo vecchio compagno di studi ad agraria e unica persona ad avvicinarsi vagamente alla figura di un amico. Di famiglia antica e nobile, Aymeric prova a mandare avanti il suo allevamento e la sua azienda agricola in Normandia rispettando l’ambiente e, per quanto possibile, gli animali, ma nonostante i complimenti per la qualità del suo latte l’attività è in perdita e tutto viene finanziato dalla vendita di parte del patrimonio. Labrouste-Houellebecq ha abbandonato il lavoro ed è scappato da tutto, ma non può dimenticare le centinaia di agricoltori e allevatori incontrati nella sua vita precedente: seminatore di ottimismo governativo quando si rendeva conto benissimo che le regole cervellotiche dell’Unione Europea unite, paradossalmente, alla globalizzazione senza regole, avrebbero cancellato il cuore della Francia. Con effetti ben al di là della crisi di un settore e della disoccupazione. La Francia che non capisce gli Aymeric, non si dice gli ignoranti attaccati al passato ma nemmeno gli imprenditori che ci provano seriamente come Aymeric, è rappresentata da sua moglie che lascia lui e la vita in campagna per mettersi (con figlie al seguito, che parlano con il padre ormai solo attraverso Skype) con un pianista di Londra. Non spoileriamo però i vari eventi e punti di svolta di un libro uscito in Italia lo scorso 10 gennaio (editore La Nave di Teseo), anche perché poi l’azione non è che in Houellebecq sia decisiva.

Insomma, la Francia e l’Occidente stanno scivolando verso una perdita di senso e di identità profondissime. E il processo, secondo Houellebecq, è irreversibile. Le reazioni possibili sono quindi soltanto due: la chiusura individualistica, cioè il lasciarsi vivere facendo produrre la serotonina al Captorix della situazione, e la rabbia senza un vero obbiettivo perché la globalizzazione non ha un volto e tutto sommato non ce l’ha nemmeno l’Unione Europea. Il libro è stato finito diversi mesi prima delle manifestazioni dei gilet gialli, ma si inserisce perfettamente in questo contesto di disillusione e di rivolta senza un nemico o, peggio ancora, con tanti nemici di giornata. Il sovranista avrebbe le sue ricette (chiudiamo a tutto e tutti), così come il globalista (apriamo a tutto e tutti), mentre in Houellebecq c’è un senso di ineluttabilità che spaventa più di guerre, invasioni o povertà. Per esclusione è facile arruolarlo fra i sovranisti, ma il suo Labrouste non ha una risposta nemmeno per se stesso, figurarsi per la Francia. La chiusura del libro, molto forte, vira sul privato come a suggerire che qualcosa si può salvare. Forse noi stessi, sapendo cogliere i segnali giusti al momento giusto, di sicuro non il nostro vecchio mondo. Conclusione? Non il capolavoro di Houellebecq, è un libro meno riuscito e anche meno ironico dei precedenti. Ma ha un impianto ideologico lontano dal politicamente corretto, che da solo meriterebbe la lettura, e soprattutto una grande passione, trattenuta a stento dal cinismo dello stile. Non è il libro che cambierà il mondo, ma un bel tentativo sì.

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