Sangue e sabbia

12 Settembre 2011 di Stefano Olivari

di Stefano Olivari
Roger Federer non è morto, né dal punto di vista biologico né da quello tennistico: chi ha due match point per la finale degli Us Open ha ancora tantissimo da dire, al di là del piccolo particolare che nel 2011 sia stato l’unico essere umano capace di tenere testa al disumano Djokovic 2011 (quello dimagrito ma la cui palla misteriosamente viaggia più forte). Andy Withfield invece non c’è più davvero: un linfoma purtroppo ha chiuso la sua esistenza a 39 anni.
Ma cos’hanno in comune il più grande tennista di tutti i tempi e un bravo attore che dopo una onesta carriera aveva trovato la fama interpretando Spartacus? Prima di tutto il fatto che abbiamo sofferto per loro, ovviamente su piani diversi, in una maniera sincera e disinteressata. Eppure avendo superato da quasi tre decenni i 15 anni non c’è stata identificazione: siamo ben lontani sia dal giocare un tennis decente che dall’essere gladiatori. In secondo luogo di quello che pensano (pensavano, per Whitfield) dell’universo mondo sappiamo zero. Ignoriamo le idee di Federer sulla lotta al terrorismo (e ne avrà di sicuro) o quelle di Whitfield sulle energie alternative (ne avrà avute, avendo girato anche lui tutto il mondo), mentre la loro vita privata per noi si riduce a poche note: la discreta presenza di Mirka in tribuna e il commovente messaggio di Vashti, ci bastano. Eppure solo tramite le loro opere (definizione che vale anche per quel bellissimo fumettone che è Sangue e sabbia, mentre il prequel Gli dei dell’arena è di un gradino inferiore e non certo perché manca Whitfield) siamo sicuri di averli conosciuti meglio di un parente stretto o di una persona che per lavoro sentiamo tutti i giorni. C’è di peggio: per loro abbiamo sofferto più di quanto avremmo abbiamo fatto per persone fisicamente più vicine. Siamo specialisti nella lagna ‘Ah, che belle le piccole librerie di una volta’, poi nella realtà siamo ultrà di Amazon. Però le piccole librerie di una volta aiutano a scoprire per caso libri geniali: un anno fa a Trastevere è stato il turno di La morte del prossimo, dello psicoanalista Luigi Zoja. Che non conoscevamo, così come molte altre persone con qualcosa da dire. Cosa sostiene in pratica Zoja, per dirla con il nostro amatissimo professor Bignami? Che il prossimo, in senso letterale, non esiste più nella società occidentale (occidentale: sempre di noi si parla, del resto checce frega degli altri?), sostituito da soggetti o entità fisicamente lontani. Lontani dal vicino, vicini al lontano, parole di Zoja. Nelle società antiche, ma neanche tanto (diciamo pre-televisive), la distanza fisica era un ostacolo all’amore o anche soltanto all’interesse, adesso non è più così. Dopo la morte di Dio, scrive lo psicoanalista, con la morte del prossimo scompare la seconda relazione fondamentale dell’uomo moderno. In parole nostre, è più facile solidarizzare con gli orsi del sud est asiatico che impietosirsi per il lavavetri al semaforo o per il cugino malato. Facile capire dove voglia andare a parare l’autore, soprattutto per noi che davvero abbiamo a cuore l’orso e siamo in senso lato il bersaglio critico del libro. E oltre all’orso abbiamo a cuore Federer, Whitfield e varie altre persone. Detto fra noi, non troviamo così negativo avere a disposizione il mondo per scegliere a chi dare il nostro amore. Non è che il vicino di casa, il genitore o il figlio che ci sono capitati in sorte abbiano più diritti nei nostri confronti di quanti ne abbia un contadino del Bangladesh o una pittrice colombiana. E quindi noi non abbiamo obblighi. Sarebbe bello anche convincersene, per sfuggire alla società dei sensi di colpa in un momento storico in cui ex ribelli scoprono la comoda mafiosità della famiglia. 

stefano@indiscreto.it

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