Cucina

Report e grandi chef, la sottile differenza fra critica e marchette

Stefano Olivari 30/03/2017

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La prima puntata della nuova stagione di Report, senza più Milena Gabanelli (adesso conduce Sigfrido Ranucci), pur con la stessa polverosa impostazione ideologica di fondo (le aziende private cattive con lavoratori sfruttati, quelle pubbliche corrotte ma piene di gente buona) è stata come al solito molto interessante: una delle poche isole di giornalismo in Italia, al di là del merito delle singole inchieste. Quella che ci ha colpito riguardava il mondo degli chef e degli sponsor ad essi collegati, ma soprattutto la critica enogastronomica e i metodi con cui vengono redatte certe guide. Per chi non l’avesse vista questo è il link.

Il mondo dell’alta ristorazione non ne esce in fondo malissimo: i cuochi-star sanno pur sempre fare qualcosa di concreto e quando non sono in televisione stanno in cucina tutto il giorno con i loro stagisti sottopagati (e felici di esserlo, sognando il loro ristorante futuro). I giornalisti, da quelli delle guide agli altri, ne escono invece giustamente a pezzi. Non solo per i rapporti con gli sponsor che spesso sono anche sponsor degli chef che in teoria dovrebbero valutare, ma per la natura stessa del loro lavoro. In altre parole, il critico è un mestiere diverso da quello dell’intervistatore. Il critico deve conoscere la materia di cui parla, ma non dovrebbe assolutamente conoscere di persona le persone criticate. Può arrivare all’estremo di Valerio M. Visintin, cioè quello di non avere un volto, ma può anche semplicemente pagarsi il conto (o farlo pagare alle testate per cui scrive) e quindi essere libero di dire che quel piatto di Bottura o di Cracco fa schifo o, più verosimilmente, costa troppo in proporzione a ciò che dà. Discorso che vale dove girano tanti soldi come nel mondo della ristorazione (o di economia, moda, auto, tech, eccetera) ma anche in quello miserabile dello sport.

Il giornalista che fa le pagelle non può coincidere con il cronista che va ogni giorno al campo: il primo deve conoscere il calcio, ma non di persona Buffon o Gagliardini, se no non potrebbe mai dargli quattro quando giocano male. Ci hanno raccontato che Lodovico Maradei, per molti anni critico calcistico della Gazzetta dello Sport, non voleva parlare con allenatori e giocatori nemmeno quando altri colleghi glieli volevano presentare. Questo gli dava credibilità, con gli addetti ai lavori e con i lettori. Gianni Minà può aver fatto grandi interviste a Muhammad Alì, ma i suoi giudizi sul campione sono meno credibili di quelli di Rino Tommasi. Stesso discorso si può fare per cinema, musica, letteratura… dove il critico è quasi sempre un amico o (più raramente) un nemico personale dei criticati.

Ma la vera differenza la fa secondo noi lo scambio materiale. Non è un concetto difficile da capire: chi va in un ristorante stellato a mangiare gratis non ha alcuna credibilità, così come chi dà il cinque alto a un giocatore, gli chiede la maglia per il cugino o il biglietto omaggio e poi deve giudicare la sua prestazione.

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