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Cucina

Il giornalismo mascherato: intervista a Valerio M. Visintin

Dominique Antognoni 14/05/2021

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Aria fresca. Che liberatoria sensazione. Avete presente? Mattina. Aprite le finestre. Fate entrare nella stanza la luce e, appunto, l’aria fresca. Inspirate e vi sentite pieni di energia, riconciliati e in pace con il mondo. Ecco, ascoltare Valerio Massimo Visintin regala momenti simili. Perché nel mondo della ristorazione è l’unico che abbia la voglia di scrivere ciò che pensa, sul Corriere della Sera, nei suoi libri di successo (nella libreria del direttore di Indiscreto sono gli unici a tema enogastronomico). e sul web. Gli altri non sembrano minimamente interessati, presi come sono da tornaconti e regali, inviti e meschinerie assortite. È un peccato, fra l’altro incomprensibile: perché mettere la propria firma alla fine di un articolo dovrebbe essere motivo di grande orgoglio, è un biglietto da visita non indifferente Ci sei tu in quelle righe, tu e la tua vita, il tuo onore. Senza contare il ritorno economico: i guadagni di un giornalista con un suo pubblico fidelizzato sono di solito superiori a quelli di un marchettaro.

Si presume che da piccolo, quando sognavi di fare il giornalista, non avessi in mente di edulcorare e spargere miele ovunque, confezionando fiocchetti rosa per qualsiasi situazione, ogni santo giorno. Ancor meno di sdraiarti per terra h25 davanti a chef e uffici stampa, facendoti calpestare con il sorriso sulle labbra. E invece. Lo sappiamo, stiamo sprecando tempo. Lo stipendio corre, come si dice in casi simili. E se i giornali non vendono, la colpa è sempre degli altri: del web, del pubblico ignorante, degli editori che non investono. Ma lasciamo stare i soliti discorsi e facciamo parlare Valerio Visintin. Ne vale la pena. Se non altro perché é un giornalista che rispetta e ama fino in fondo il suo mestiere. Per davvero. Uno per il quale il test della macchina della verità sarebbe fatica inutile. Uno che tiene fede ad una promessa e a un concetto elementare: accontentare il lettore, senza ingannarlo. Ma come abbiamo fatto ad arrivare a questo punto, cioè esaltare chi semplicemente fa il proprio mestiere? Lo chiediamo a Visintin, conosciuto anche come ‘Il critico mascherato’, visto che nei ristoranti ci va senza farsi riconoscere e senza dire di essere un giornalista, in modo da essere trattato come il cliente medio.

Partiamo dai giornalisti che non criticano mai, portando come debole scusa il fatto che i direttori non gradiscono e di conseguenza non ti passino articoli poco entusiasti: è credibile una motivazione del genere?

Sì e no. Il buonismo ecumenico che sottende alle cronache gastronomiche è una prassi di convenienza mutualistica. Le testate hanno interesse a disegnare un mondo di meraviglie per confortare gli sponsor, i quali sono spesso gli stessi che foraggiano chef e imprenditori della ristorazione. Mentre i giornalisti, un popolo di precari, si barcamenano come possono, assecondando gli uffici stampa e raccattando qualche marchetta, in danaro o in natura.

Si suppone che, mettendo la firma in fondo all’articolo uno dovrebbe avere un minimo di amor proprio e di orgoglio: perché non accade, perché si sdraiano per terra a prescindere da chi hanno davanti? Perché è così difficile ammettere la propria mancanza di coraggio e di personalità, di carattere e di voglia di esporsi? Non sarebbe più giusto metterlo bene in evidenza, come incipit di ogni articolo qualcosa del tipo “Scusate, io sono uno di quelli che scrive solo in maniera positiva, non voglio rogne”?

Tutti questi interrogativi presuppongono una coscienza etica e professionale. Ma l’etica si è estinta, essendo un processo fondato su valori di riferimento che trascendono gli interessi personali. Mentre la professionalità è vissuta come una limitazione alla libertà personale.

Jay Rayner, una specie di Visintin inglese, dice che lui fa il giornalista e di conseguenza è pagato per vendere giornali, non per vendere ristoranti. Come la prenderebbero qui, dove i giornali non sono mai stati creati per i lettori, ma bensì per altri motivi? Come la prenderebbero se da domani venisse detto loro di scrivere per i lettori e di dover vendere copie? Sarebbero in grado?

Servirebbe una controrivoluzione culturale. Un’inversione a U, ipotizzabile soltanto con la partecipazione di tutte le parti in causa. Degli sponsor, delle case editrici, dei giornalisti e dei para-giornalisti, dei social. E dei lettori, che in Italia non comprano affatto le copie di giornali teorizzate da Rayner, ma si ingozzano di informazioni gratuite, senza badare alla reputazione, né alla trasparenza di chi scrive. Chiaro, dunque, che stiamo sognando: il processo è irreversibile.

È un critico credibile uno che non ha mai criticato? O forse si dovrebbe inventare una nuova categoria, tipo il “recensore mieloso”?

Sorrido, perché sarebbe una bella etichetta da incollare sulla fronte di molti colleghi. Ma la credibilità è un altro orpello del passato. Ora contano i click e i quattrini degli investitori.

In tanti credono, rendendosi ridicoli, che vale di più vantare amicizie e fare selfie con gli chef piuttosto che scrivere quello che si pensa. Non le pare assai pittoresco un atteggiamento del genere?

“Pittoresco” è un eufemismo. Sono vergognosi e cretini.

Capitolo uffici stampa. Hanno ancora senso, nel 2021? Si comportano come nel 1980: mandano comunicati sciatti e ti invitano a pranzo. Non è un modello superato? Lei cosa farebbe?

In realtà è un mestiere in precipitosa evoluzione. Anzi, l’ultima frontiera della comunicazione nel food è nei destini incrociati di giornalisti e uffici stampa. Sempre più dipendenti i primi dai secondi, sempre più in posizione ancillare. Gli uffici stampa maggiormente accreditati hanno contatti diretti con gli sponsor, intrecciano influenze tra chef e congressi, scelgono i convocati ai vernissage e alle conferenze che contano, hanno tra le dita un potere crescente sulla folla indistinta dei foodisti. E progressivamente stanno assumendo anche altre sembianze, sovrapponendosi alla figura degli influencer. Certo esiste anche una solida rappresentanza di professionisti che cercano di svolgere dignitosamente il loro ruolo. E, in genere, sono quelli che subiscono il revanscismo, gretto e protervo, di giornalisti, influencer e blogger.

Un ufficio stampa deve accompagnare il giornalista e stargli addosso per due ore, o sarebbe meglio lasciarlo andare da solo, quando e semmai lo vorrà?

Si sa come la penso. I giornalisti dovrebbero andare nei ristoranti senza preavviso e, potendo, in incognito.

Con gli articoli pubblicati sui quotidiani si riesce ancora a riempire i ristoranti, oppure tutto ciò è un retaggio del passato?

Il singolo articolo di un giornalista non è sufficiente. Più facile che il travaso di massa avvenga se la segnalazione parte dai social di un influencer, perché il loro seguito è compatto e ostinatamente identitario. Ma c’è anche un altro tipo di successo. Quello mediatico. Che si concretizza quando, a sostegno di uno chef, s’accende la grancassa dei critici più illustri, i quali sono legati gli uni agli altri da un cordone ombelicale. Può sembrare un paradosso, ma la maggior parte dei cuochi d’alto bordo ambisce a questa consacrazione e al suo indotto, più che a una sala piena di clienti. 

Fin qui l’intervista, che pubblicheremo in versione integrale nel prossimo numero di Good Life. Ci preme di fare una precisazione. L’ultimo concetto espresso da Visintin vale quando a investire sia una terza persona e non lo chef. Perché con i propri soldi nessuno ha voglia di andare in rosso. Con i soldi degli altri, invece…

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