Esercizi di ciclostile
Prendere esempio dal calcio
di Stefano Olivari
Pubblicato il 2007-06-29
1. Averlo saputo prima. Patrick McQuaid non avrebbe dato retta ad Anne Gripper, coordinatrice della Commissione anti-doping. E l’Unione Ciclistica Internazionale non avrebbe avviato una campagna moralizzatrice senza precedenti. Non avrebbe chiesto ai corridori di prendere «L’impegno per un nuovo ciclismo», toccandoli nell’onore e soprattutto nel portafoglio. Non avrebbe esteso, agli stessi, l’obbligo di rendersi reperibili ventiquattr’ore su ventiquattro, 365 giorni l’anno, dunque sempre passibili di controlli a sorpresa. Non avrebbe fatto pressioni su gruppi sportivi e organizzatori, perché sospendano o non ammettano alle gare tutti ma proprio tutti i campioni fuori norma, anche quelli più rappresentativi. Ah, se solo avessero ascoltato il presidente della Commissione anti-doping FIGC, dottor Giuseppe Capua: «Per liberarsi dall’associazione a delinquere che lo ha intrappolato, il ciclismo prenda esempio dal calcio».
2. Il più incredibile (o meno credibile) degli sport professionistici – che tale era tale rimane – può quindi vantare l’autocertificazione di una lista bianca unica nel suo genere, da contrapporre alle troppe liste nere sottoscritte ultimamente. Meglio ancora: giusto da sovrapporsi a quei dettagliati cataloghi dei dopanti, suddivisi paziente per paziente. L’analisi incrociata degli elenchi chiari e oscuri non è un esercizio da certosini del dubbio o del sospetto, da giornalisti professionisti dell’anti-doping. È piuttosto un passatempo estivo, un gioco del tutto innocente. Molto meno colpevole di una giustizia ingiusta. Tanto per venire a sapere chi c’è, chi non c’è, chi ci fa e chi si crede di essere. Ma la lista bianca la si firma da soli o in compagnia? E si firma solo perché l’ha ordinato il medico? Perché l’hanno imposto la squadra e gli sponsor? A oggi si notano le firme di Simoni e Riccò. Mancano ancora quelle di Piepoli, Petacchi, Di Luca e Mazzoleni.
3. Il prossimo 7 luglio scatta da Londra il massimo evento ciclistico mondiale: il Tour de France, quello che «ormai è rovinato» (Christian Prudhomme) e insieme quello «davvero pulitissimo» (Anne Gripper, sempre lei). Un’interpretazione univoca della novantaquattresima Grande Boucle – quella che parte senza maglia gialla – non la si può ricavare neanche dalla letteratura specializzata più recente, espressasi sull’argomento. David Walsh la prende bene alla larga, sospettando che al Tour molti continuino comunque a doparsi. Da Armstrong a Landis l’andazzo sarebbe rimasto le stesso (From Lance to Landis. Inside the American Doping Controversy at the Tour de France, Random House, New York). Floyd in persona, con Loren Mooney, continua invece a prenderla malissimo, sospettando che l’anti-doping continui a sgarrare peggio che i supposti dopati (Positively False. The Real Story of How I Won the Tour de France, Simon & Schuster, New York). Boh. Siamo confusi, non sappiamo cosa pensare. Vorrà dire che ci distrarremo col giallo di Mura.
4. Ren Chengyuan e Ying Liu sono tra le prime dieci della Coppa del Mondo di MTB. Hanno meno di ventitre anni. E alle loro spalle, nell’ombra, rivengono forte molte altre connazionali. Su strada si segnalano un paio di ottimi Juniores. I migliori Under 23 faranno presto la gavetta in Europa. Si chiama programmazione: si spiega col serratissimo programma di avvicinamento a Pechino 2008, impostato dalla federazione cinese. In compenso si sprecano malignità e insinuazioni su metodi d’allenamento e trattamenti – si fa per dire – terapeutici, obbligatori anche per giovani e donne. Come se di mezzo – si fa per dire – ci fosse un ginecologo di Taiwan, specialista nella conservazione di sangue ben ossigenato, bell’e pronto per l’autoemotrasfusione. Nel frattempo, a Roma, si consuma un divorzio all’italiana tra la Federazione e i due tecnici della pista incaricati, Sandro Callari e Silvio Martinello. Il triangolo no, no che non ha funzionato. Ammette l’oro di Atlanta 1996: «Rischiamo di arrivare all’Olimpiade con meno atleti di quanti ne avevamo ad Atene 2004». No che non si chiama programmazione: si spiega con il fallimento di un sedicente Progetto, che avrebbe dovuto rilanciare il settore. La Cina è vicina, Pechino si allontana.
Francesco Vergani
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