Il mito a metà di Hurricane Carter

25 Aprile 2014 di Stefano Olivari

Rubin Carter è morto il giorno di Pasqua ed ha vissuto gran parte della propria vita da simbolo, anche se tuttora non è ben chiaro di che cosa. Del razzismo, della cattiva giustizia, dell’America, del pugilato, della furbizia? Il grande ‘Hurricane’ cantato da Bob Dylan e protagonista del film con Denzel Washington, non è stato solo un uomo che ha diviso gli Stati Uniti, ma anche ottimo pugile. Un peso medio molto aggressivo, avvicinatosi alla boxe durante una fugace esperienza nell’esercito (davanti alla corte marziale per vari episodi e poi espulso), intermezzo fra il riformatorio e il carcere vero nel natìo New Jersey, causa rapina. Quando nel 1961 Carter inizia, a 24 anni, la sua carriera professionistica, di anni nei vari carceri ne ha già trascorsi 7. Dello stereotipo del pugile nero non fa parte però la famiglia, dove non è mai mancato niente e nessuno dei 6 fratelli ha mai avuto problemi con la giustizia.

Rubin si guadagna il soprannome e la fama di Hurricane, uragano, con vittorie per k.o. contro mezze figure ma anche contro pugili credibili, in un’era in cui esisteva un solo campione del mondo professionistico per categoria (che poi spesso certe categorie fossero condizionate dalla mafia è un altro discorso). La svolta della sua carriera a fine 1963, quando brutalizza Emile Griffith, futuro avversario di Nino Benvenuti in un famoso ‘trittico’. La vittoria lo fa schizzare nel ranking degli sfidanti e dopo la vittoria su Jimmy Ellis il campione del mondo Joey Giardello non lo può più evitare. Giardello aderisce a tutti canoni del pugile italo-americano: nato a Brooklyn, cresciuto a Philadelphia, mestierante coraggioso e poco protetto organizzativamente (a fine carriera 25 sconfitte), è campione del mondo da un anno, dopo avere battuto il nigeriano Dick Tiger. Il 14 dicembre del 1964, trentaquattrenne, la sfida con il più giovane ed esplosivo Carter. Che batte tenendolo lontano grazie al superiore allungo, colpendo e fuggendo. La decisione dei giudici è unanime, il parere della stampa presente anche: bravo Carter, ma ha vinto Giardello.

Nessuno parlerà più di quel match fino al film Hurricane, del 1999, in cui Norman Jewison si inventa un match mai disputato (ci sarebbero anche le immagini vere…) e induce lo spettatore all’oscuro di tutto a credere che Carter sia stato derubato da una giuria razzista e/o mafiosa. Un capolavoro di cialtronismo, che mostra un Giardello con la faccia ridotta a una maschera di sangue, come nemmeno nelle sequenze più splatter di Rocky, mentre nelle immagini televisive e nelle foto d’epoca di questo sangue non c’è traccia. Nel silenzio dei media Giardello farà causa alla Universal Pictures e riceverà in via extragiudiziale un sostanzioso indennizzo, di sicuro superiore alla borsa percepita per il match quasi 35 anni prima. In ogni caso dal 1964 inizia il declino sia suo che di Carter, che perde tutti i match che potrebbero rilanciarlo, smette di allenarsi e il 17 giugno 1966 vede cambiare di nuovo e in peggio la sua vita.

A notte fonda due uomini entrano in un bar di Paterson, New Jersey, e iniziano a sparare: muoiono sul colpo il barista e un cliente, mentre un altro se ne andrà un mese dopo e una quarta persona rimane ferita. Le certezze finiscono qui, perché subito dopo inizia il circo delle testimonianze contraddittorie, con protagonista un ladro di strada di nome Alfred Bello, che bloccato dalla polizia nelle vicinanze del bar dice di avere visto due neri, uno con una pistola e uno con un fucile, uscire dal locale subito dopo gli spari e salire su un’auto. I due vengono identificati in Carter e nell’amico John Artis, da lì inizia una vicenda giudiziaria senza fine. Diciamo ‘senza fine’ non a caso, perché Carter e Artis non sono mai stati dichiarati non colpevoli, ma lo Stato del New Jersey ha rinunciato a processarli per una terza volta, come avrebbe avuto facoltà di fare. Per motivi di credibilità delle testimonianze, a distanza di decenni ancora più ingarbugliate, ma anche banalmente politici. Dopo il primo processo il Carter carcerato era infatti diventato un simbolo dei diritti civili negati ed il secondo processo si era svolto in un clima da battaglia nonostante della giuria facessero parte anche neri, aiutando una difesa sempre più in difficoltà e che si era sentita spacciata quando alcuni testimoni pro Carter (nel senso che gli avevano dato un alibi per l’ora del crimine) avevano detto di avere mentito su richiesta dell’accusato.

Punto debole dell’accusa le figure di Bello e di un suo complice, Arthur Bradley, saltato fuori a diversi mesi dai fatti per riconoscere Carter e Artis. La comparsa di Bradley rinfresca la memoria di Bello, che da ‘due neri’ passa a ‘Carter e un altro’. Punto debolissimo il movente, inesistente in ogni caso. Nel 1974 sia Bello che Bradley ritratteranno la loro già confusa deposizione e da qui parte la campagna per il secondo processo, quella in cui va inquadrata gran parte della pubblicistica pro-Carter (e la stessa canzone di Dylan). Nel 1976 Carter viene rilasciato su cauzione e non trova di meglio da fare che picchiare a sangue un’anziana signora che raccoglieva fondi per pagargli le spese legali, tradire la moglie e mettersi in una serie di guai che lo mettono in cattivissima luce al secondo processo. Dove Bello ritratta… la ritrattazione, mossa decisiva perché a Carter e Artis venga confermato l’ergastolo. Nel 1985 la fine processuale della vicenda, quando la Corte Federale stabilisce che Carter e Artis hanno avuto un processo troppo condizionato da elementi esterni e da razzismo. Non afferma che non sono colpevoli, ma li rimette in libertà e l’assenza di ricorsi permette loro di vivere in relativa pace gli ultimi anni di vita. Una storia intricatissima, dal punto di vista legale, mentre ben più chiara per quanto riguarda i sentimenti mossi anche in chi non segue la boxe.

(pubblicato su Il Giornale del Popolo di giovedì 24 aprile 2014)

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