La maratona del vegetariano

25 Febbraio 2011 di Simone Basso

di Simone Basso
La ordinaria e straordinaria vita di Marco Olmo, mito italiano della corsa estrema e personaggio lontano dalla retorica. Anche da quella della fatica…
 A Roubilant lo conoscono tutti. Si alza da tempo immemorabile verso le cinque del mattino e si mette a correre: in paese, sotto sotto, l’hanno sempre considerato matto da legare. Marco Olmo fa ormai parte del paesaggio della Valle Vermenagna, nell’enclave di montagna degli occitani. Terra bellissima e spietata. Da ‘ste parti la storia ha sempre pisciato senza riguardo alcuno: son passati tutti, i romani per primi, poi i saraceni; vi trovarono rifugio persino i catari. L’Argentera domina incontrastata il panorama; se la guardate d’inverno, magari col maestrale che rende il cielo limpido, vi toglie il respiro.
L’Olmo, cognome che sa di storia nobiliare sportiva tra Piemonte e Liguria, è arrivato tardi all’agonismo. Più o meno quando gli altri, i giovinastri, smettono. Figlio di contadini montanari, ha lavorato al pascolo fino ai vent’anni e poi ha fatto il camionista. Infine ha cominciato nelle cave, con la scavatrice a spostare i pietroni, e non ne è più uscito. In fondo era meno complicato guadagnare il danè con un mestiere ripetitivo, robotico, piuttosto che spaccarsi la schiena sulla terra. Una storia amara, già scritta nelle pagine più dolenti di Fenoglio e di Revelli. Da perfetto bugianèn, si attaccò un numero al petto (per gioco) a ventisette anni e non si è più fermato.
“Nella vita sono un vinto.”
Tutti i santi dì, smontando alle due del pomeriggio, ha proseguito a correre. Ha gareggiato ed è andato in pensione: correre, sempre, correre e basta. Si è scoperto campione tardi, frequentando l’Ultramaratona e le specialità più estreme, sulla soglia dei quaranta. Lui, abituato alla neve e al ghiaccio della Granda, ha stabilito una relazione speciale con la sabbia e il solleone. E’ diventato un protagonista della Marathon des Sables in Marocco: 230 chilometri in una settimana, una fatica (immane) da compiere completamente autosufficienti dal punto di vista alimentare. Nove litri di acqua ogni tappa con lo spettro del colpo di sole e delle tempeste. Marco è apparso subito a suo agio tra le dune: “Correre nel deserto è la cosa più immediata che ci possa essere. Il deserto era lì prima del tartan e delle strade di New York, quindi una corsa nel deserto è più naturale della N.Y. City Marathon.” Un cliente fisso anche della Desert Cup in Giordania (168 chilometri), della Desert Marathon libica e dei centocinquantaseimila metri della Maratona dei Dieci Comandamenti sul Monte Sinai. Competizioni vinte oltre la soglia dei cinquant’anni e contro avversari che potrebbero essere suoi figli…
Magro come un’acciuga, esibisce rughe bellissime che paiono millenarie su quel viso antico, incorniciato da una barba ispida.
Il suo capolavoro lo compì all’Ultra-Trail du Mont-Blanc, la gara per eccellenza del settore: un massacro di 167 chilometri, tra i confini di Francia, Italia e Svizzera. Col mostro alpino a far da testimone a una Via Crucis: più di novemila metri di dislivello da percorrere, due volte l’ascesa dal campo base di partenza all’Everest (!), e ventuno ore di corsa. Il cuore di Marco batte al rallentatore, sui trentacinque battiti al minuto, e a quasi cinquantanove anni si è permesso di fare la doppietta. Una volta si è presentato al via Dean Karnazes, leggenda americana dell’Ultramaratona. Lo yankee coi muscoletti belli delineati, da palestra, supersponsorizzato e iperattrezzato con le tutine in thermodress; il cuneese, boia faus, con l’aspetto di un montanaro alla gita campestre. Olmo all’inizio è rimasto indietro e poi, strada facendo, li ha raccolti tutti. Il campionissimo californiano? A Chamonix è arrivato quarantacinquesimo, a sei ore dal piemontese.
“Non ho molte regole, anzi le odio. Non ho allenatori, preparatori, dietologi…”
E’ vegetariano, anzi quasi vegano, da quando ha trentasette anni, una scelta che gli ha cambiato la visione del mondo: “Un animale per me non è un pasto, ma un essere vivente.”
Nei boschi sopra Robilante, nei luoghi degli allenamenti, la natura si sta riappropriando dei sentieri; allora Marco va con l’accetta e la motosega e taglia gli arbusti che invadono i percorsi. Ha sorpassato i sessanta e perde sempre più spesso; malgrado la scocciatura la cosa non sembra preoccuparlo più di tanto. Dopo eoni di indifferenza delle aziende ha pure trovato un mecenate che gli sponsorizza le trasferte: quando posa per le foto pubblicitarie, alla faccia del suo sorriso, ha lo sguardo del bipede meno convinto del pianeta.
Ci ricorda un’altra leggenda regionale, Trapulìn Belmondo, un vino doc dal sapore vero che si confrontava coi vinacci adulterati, chimici, della concorrenza.
Renata, la sciùra Olmo, continua a seguirlo preoccupata come se fosse un bimbo: è la vera protagonista del bel documentario (“Il corridore”) dedicato al marito. Uno che si definisce appartenente alla schiera di “nuovi poveri” del Bel Paese. L’uomo che ha fermato il tempo proseguirà nell’avventura sbilenca e felice: difficile, una volta conosciuta la sua parabola incontaminata, riabituarsi alla merdre che ci ostiniamo ancora a definire sport.
“Io sono sempre stato libero, perchè solo chi è libero può correre davvero.” 

Simone Basso
(in esclusiva per Indiscreto) 

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