Rugby

Italiani come Napolitano

Paolo Sacchi 28/10/2013

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Avete storto la bocca vedendo giocare Camoranesi e Thiago Motta con la maglia azzurra? Vi appassiona il dibattito sull’italianità di Balotelli e del ministro Kyenge? Siete perplessi sull’attaccamento alla nazionale di Hackett? Allora proseguite a leggere perché sabato sera a Cardiff nel match inaugurale della coppa del mondo di rugby league, parente stretto del più noto rugby union – quello del Sei Nazioni, per intenderci – è scesa in campo quella che forse si potrebbe definire la nazionale italiana più oriunda della storia. La vittoria per 32 a 16 sul Galles da parte della squadra guidata da Carlo Napolitano, italiano di Salford, e capitanata da Anthony Minichiello, nato nel New South Wales, in realtà non ha sorpreso troppo gli addetti ai lavori, perfettamente a conoscenza della qualità della formazione che rappresenta il nostro Paese in questa disciplina popolare nel nord dell’Inghilterra e soprattutto in Australia, da dove proviene la gran parte degli azzurri, tutti professionisti nella NRL, la celebre lega locale. Al debutto assoluto nella competizione mondiale l’Italia dunque si candida a un ruolo da protagonista in uno sport pressoché sconosciuto in patria – risibile il numero dei praticanti – grazie a giocatori diventati sportivamente nostri connazionali poiché discendenti o parenti d’italiani. Sia chiaro, nessuna italica furberia: il regolamento lo permette, tanto che l’opportunità è stata colta anche da altre nazionali rispetto ad atleti australiani o britannici. Tralasciando aspetti già tema di dibattito a proposito dell’immigrazione in Italia legati all’ottenimento della cittadinanza (gli anni di soggiorno consecutivi, la conoscenza della lingua e della cultura del nostro Paese), resta il fatto che i regolamenti sportivi in qualche misura instillano più di un dubbio sulla credibilità di alcune competizioni. La possibilità, come nel caso della rugby league, di rappresentare più nazioni durante la carriera, come ad esempio per Laffranchi, compaesano di Minichello – nel senso che entrambi sono nati nel New South Wales – e già nazionale australiano prima di diventare italiano, per quanto legittima lascia qualche perplessità sul concetto di identità, di appartenenza a un Paese. Insomma, anche se ogni successo inorgoglisce, resta il fatto che lo sport delle rappresentative nazionali è più che mai sospeso a cavallo tra un mondo senza frontiere e la salvaguardia delle culture locali, tra l’Aspire Sports Academy di Doha e l’oratorio dietro l’angolo.

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