Il cuore di Colbrelli ed Eriksen

4 Aprile 2022 di Stefano Olivari

Il paragone fra il caso di Sonny Colbrelli e quello di Christian Eriksen è scontato, non fosse altro che per il defibrillatore sottocutaneo che permette di riprendere l’attività sportiva ma non di fare agonismo in Italia. Certo nel ciclismo recente, considerando il minor numero di professionisti rispetto al calcio, i problemi cardiaci di vario tipo (Viviani, Ulissi, Moscon) e gravità sembrano molto frequenti. Non necessariamente significa, per parlare chiaro, che il ciclismo sia pieno di dopati e il calcio di onesti, visto come funziona l’antidoping nel calcio (il giorno in cui vedremo un vero controllo a sorpresa in un grande club sarà sempre troppo tardi), ma come minimo che il ciclismo ad alto livello fa alla salute peggio del calcio.

Eppure la narrazione del ciclismo è profondamente cambiata rispetto a quando il pallino, per merito degli sponsor dell’epoca, era in mano a Italia, Francia e pochi altri paesi europei. Prima ogni problema fisico di un ciclista, anche le emorroidi, veniva imputato al doping, adesso con sprezzo del ridicolo si preferisce porre l’enfasi sulla bellezza di essersi resi conto in tempo del problema, ovviamente congenito e sfuggito ad un minimo di 20 cardiologi (tutti laureati telematici). Insomma, secondo questi nuovi narratori rischiare la morte al Giro di Catalogna è in fondo una cosa positiva, visto che ti manda il segnale necessario per effettuare visite più approfondite. Aaah, signora mia, la cultura sportiva anglosassone.

Cosa vogliamo dire? Questo: che uno con il suo corpo può fare ciò che vuole, anche spingerlo oltre il limite per battere l’amico del paese per un prosciutto e non la Parigi-Roubaix. Ma gli altri partecipanti alla competizione, compagni o avversari che siano, perché dovrebbero essere costretti a gareggiare insieme ad uno che gli può morire davanti? Certo, ci vuole una normativa europea unica (varrà anche per la Russia?), eccetera, ma in questo caso meglio l’Italia.

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