Aristoteles per sempre

Intervista all’attore svizzero Urs Althaus che tutti noi abbiamo imparato ad amare come la punta di diamante della Longobarda nel celebre film ‘L’allenatore nel pallone’

14 Giugno 2021 di Simone Sacco

Reduce da una breve tappa in Italia a Seregno, Como e Desio dove ha presentato la sua autobiografia intitolata senza tanti complimenti Io, Aristoteles, il negro svizzero e una birra artigianale per veri intenditori (perdonateci la pubblicità, ma troviamo irresistibile il fatto che si chiami La bomberata), ci siamo immediatamente messi sulle tracce di Urs Althaus, attore e modello elvetico classe 1956, che tutti voi conoscerete per quel certo film epocale del 1984, L’allenatore nel pallone, visto giusto qualche centinaio di volte nella vita.

Evitando quindi di perderci in preamboli fin troppo retorici, cediamo subito la parola allo stesso Urs perché qua l’orologio corre, l’Atalanta è in vantaggio 1-0 e la Longobarda deve miracolosamente salvarsi. Restando in serie A anche a questo giro. Fuori dunque il malvagio Speroni (l’attore Stefano Davanzati, ammirato di recente in Speravo de morì prima nei panni di Marcello Lippi) e dentro il puro Aristoteles, vale a dire il loquace Althaus. Si sieda in panchina chi imbroglia e stia in campo chi fa le cose col cuore. Ci perdonino i cultori di Oronzo Canà e della sua bizona, ma la lezione più bella donataci da quel grande attore che è Lino Banfi non può essere che questa.

Dimmi la verità: chi tifi, mercoledì sera, tra Italia e Svizzera?

Vedo che cominciamo con le domande facili… Ti va bene se me la cavo con un vinca il migliore? (sorride)

No, devi essere più schietto.

Allora mi metti in difficoltà perché, fin da bambino, erano ben tre le mie squadre del cuore: Svizzera, Italia e Brasile. Oggi mi sento un po’ come la mamma di Grant Xhaka dell’Arsenal che ha un figlio che gioca nella nazionale elvetica ed un altro (il fratello Taulant in forza al Basilea. Ndr) che veste la maglia di quella albanese. Pensa come sarà diviso il cuore di quella povera donna quando si affrontano Svizzera ed Albania! (ride) Esattamente come il mio adesso.

Tra tre anni L’allenatore nel pallone festeggerà il suo quarantennale e chiunque lavorò a quel film (Urs Althaus/Aristoteles e Lino Banfi/Oronzo Canà in primis) è tuttora amatissimo e molto citato dai media. Tu quando ti sei reso conto per la prima volta di essere finito dentro un vero e proprio cult movie?

Nel 1984, quando la pellicola uscì al cinema, eravamo tutti soddisfatti perché si piazzò al secondo posto nella classifica degli incassi settimanali. E al primo svettava ‘C’era una volta in America’ di Sergio Leone, non so se mi spiego… Però la vera botta arrivò dopo. Per l’esattezza quando tornai in Italia, nel 2001, per lavorare a ‘Il Commissario’, una serie tv di Canale 5 con protagonista Massimo Dapporto. Già all’arrivo a Fiumicino mi insospettii perché trovai due carabinieri che mi scortarono come un VIP e, congedandosi, mi chiesero pure l’autografo. Alla prova costumi, poi, dall’intera troupe partì spontaneo un forte coro da stadio: “Ariii! Ariii!”. Ecco, lì mi accorsi che il passaparola e i continui passaggi televisivi (per non dire le VHS o i DVD de ‘L’allenatore nel pallone’) avevano generato un mostro. Un mostro in senso positivo, ci mancherebbe!

Cosa ti ricordi del tuo approccio al film di Sergio Martino quando ti stavi apprestando a girarlo?

L’inizio esatto dell’avventura. Un’automobile della produzione che viene a prendermi nei dintorni di Roma l’ultimo giorno di riprese di ‘Arrapaho’ (il mezzo musical diretto da Ciro Ippolito e incentrato sull’album omonimo degli Squallor. Ndr). Mi fanno salire a bordo e, con una certa fretta, mi portano sgommando fino all’aeroporto dove mi attende un volo per il Brasile. A quel punto mi consegnano un intero copione, quello de ‘L’allenatore del pallone’ ovviamente, da studiare durante il viaggio. 

Continua…

E poi le due settimane a Rio De Janeiro dove girai solo una breve scena (quella della partitella nei pressi del Maracanà dove Banfi/Canà scopre finalmente il suo pupillo intento a dribblare mezza squadra avversaria. Ndr), ma ti giuro che l’allegria e la sfrenatezza di quei giorni me li porterò dentro finché campo! Peccato che non esista un “making of” di quella trasferta carioca perché – tra me, Lino, Gigi e Andrea più il regista Sergio Martino – ne avresti visto delle belle… Io tra l’altro parlavo poco italiano all’epoca; così passai tutto il tempo a ridere in compagnia dei miei nuovi amici.

La leggenda narra che su quel volo per Rio ci fosse anche Luciano Moggi. Mandato dal Torino in Brasile per concludere l’affare-Junior (quello vero, non la controfigura del film) col Flamengo. Confermi?

Da quel che ne so io, su quell’aereo c’eravamo solo noi della troupe. Una troupe ridotta all’osso, per la cronaca: attori, regista e cameraman. Però Sergio andò in trasferta altre volte a Rio per sopralluoghi durante la fase di pre-produzione del film. Forse questo signor Moggi lo incontrò su di un altro volo transcontinentale.

Una cosa curiosa de L’allenatore del pallone è che Aristoteles buca la scena dopo un lungo prologo ambientato nel ruspante mondo del calciomercato. In pratica ti è bastato mezzo film per entrare nell’immaginario collettivo…

Sì. E, più dei dribbling vincenti o dei gol decisivi, per me Aristoteles ha lasciato il segno perché lui è un entusiasta del football. Non gioca per i soldi, come fa il 99% degli attuali calciatori professionisti, ma perché dentro il suo cuore alberga questo sogno (un sogno da bambino) di sfondare nel suo sport preferito. E ci riesce restando umile. Credo che il pubblico abbia notato questa sua attitudine e se ne sia innamorato fin dalla prima volta.

Secondo te, a livello di coscienza sociale, qui in Italia ha fatto di più uno come Aristoteles o il Black Lives Matter?

Parli di lotta al razzismo, giusto?

Esatto. L’allenatore nel pallone condanna la diversità razziale con l’arma della magia cinematografica (la famosa scena della suddivisione delle stanze in hotel tra i vari giocatori della Longobarda) suscitando un reale imbarazzo in chi lo guarda. Il BLM, invece, impone il suo messaggio in maniera più politica tra obbligo di kneeling e severe prese di posizione. Che ne pensi?

Che hanno ragione entrambe le parti. Però, dal mio punto di vista, posso giurarti che Lino Banfi ci teneva a girare bene quelle due scene (sia quella nella hall dell’albergo che soprattutto l’altra, in camera, dove io piango e lui mi fa addormentare accennando una memorabile bossa nova) perché, già in quel 1984, era ben conscio che il razzismo esistesse sia nel calcio che fuori. Le recenti proteste del Black Lives Matter, in ogni modo, non le inquadro solo come una contrapposizione tra bianco e nero, ma come un tentativo di dare dignità alle persone di tutto il mondo. Perché il punto, in questo caso, è uno solo. Le nostre vite devono essere costantemente migliorate e una chance deve essere data a tutti: bianchi, neri, gialli, rossi, poveri delle favelas, occidentali, orientali, africani ecc.

Torniamo al football. Una delle sequenze più iconiche della pellicola l’hai girata attorniato da calciatori veri: i romanisti Ancelotti, Chierico, Graziani e Pruzzo. Visto che il film fu realizzato nel giugno/luglio del 1984 e il 30 maggio precedente la Roma aveva perso in casa la Coppa dei Campioni contro il Liverpool ai rigori, mi chiedevo se quei quattro li avessi trovati ancora tristi per via di quell’enorme delusione sportiva…

No, nella maniera più assoluta. Quel giorno sul set notai delle persone serene calate in un’atmosfera fantastica. Per me fu una dolce rivincita personale giocare assieme a loro (soprattutto con Ancelotti, che mi insegnò a battere le punizioni) perché, fin da ragazzino, volevo fare il calciatore. E pregavo mia mamma di non mandarmi a scuola perché dovevo allenarmi pure al mattino, convinto com’ero che sarei diventato il nuovo Pelé! E lei: “Ok figlio mio, un giorno sarai bravo come lui, ma intanto studia!” (ride)

Che poi, da ragazzino, Edson Arantes do Nascimento finisti per incontrarlo sul serio…

Scherzi? Ho ancora la sua foto con autografo appesa in casa mia. Sai, a fine anni Sessanta il Santos venne a giocare un’amichevole contro lo Zurigo e, all’epoca, in Svizzera bambini di colore ne vedevi ben pochi… Così quel giorno mi spacciai per brasiliano e riuscii ad intrufolarmi negli spogliatoi eludendo la sicurezza. Piccolo salto temporale in avanti. Vent’anni dopo abitavo a New York, facevo il modello di successo per Calvin Klein o Dior e me la passavo decisamente bene. Nel mio condominio, il famoso Hotel Navarro sulla 59esima dove possedevano degli appartamenti privati anche Franz Beckenbauer e Luciano Pavarotti, si aprono le porte dell’ascensore e chi ti incontro nella lobby?

O’ Rei?

Già. Probabilmente era lì per incontrare il suo ex compagno del Cosmos, Beckenbauer. Trovai il coraggio di parlargli e un po’ ingenuamente gli dissi: “Pelè, te lo ricordi quel giorno a Zurigo col Santos? Quel ragazzino impertinente che ti chiese l’autografo? Sarei io…”. E lui: “Urs, lo sai quante milioni di persone ho incontrato nella mia vita? Quante milioni di mani ho stretto? Be’, non te la prendere se non mi ricordo, ma probabilmente tu eri una di quelle!”. Un personaggio pazzesco, Pelè. Lo avverti subito, quando arriva in un luogo, che possiede il carisma dei più grandi.

Sempre per via del fatto che nel tuo destino c’era la figura artistica di Aristoteles, una volta ti scambiarono addirittura per Teofilo Cubillas. La stella del Perù anni Settanta…

Vedo che ti sei preparato bene sulla mia vita. (sorride) Dunque, le cose andarono così: da ragazzo giocavo a calcio da semi-professionista nelle giovanili di Basilea e Zurigo prima che un infortunio al braccio mandasse definitivamente a monte i miei sogni di gloria. Comunque, nel 1973, il Basilea mette sotto contratto Cubillas (che giocherà in Svizzera solo mezzo campionato prima di trasferirsi al Porto. Ndr) e in città c’è grande fermento per l’arrivo del campione sudamericano. In quello stesso periodo con l’Under 16 veniamo invitati a vedere una partita dei “grandi” al St. Jacob-Park, ci accomodiamo in tribuna e – tempo un minuto – cominciano a scattare i flash. Per via della mia pelle color cioccolata mi avevano scambiato per Teofilo! E non finì mica lì: il giorno dopo, mentre Cubillas doveva ancora prendere l’aereo per la Svizzera, io ero già in prima pagina su tutti i quotidiani del Paese!

Prima mi parlavi di chance che andrebbero concesse a tutti. E tu ne avesti una bella grossa nel 1986 quando partecipasti al kolossal Il nome della rosa assieme a Sean Connery e per la regia di Jean-Jacques Annaud. Il tuo personaggio di “Venanzio” venne lodato dalla critica, ma Hollywood – che all’epoca lanciava i vari Denzel Washington, Wesley Snipes e Eddie Murphy – non ti chiamò mai. Perché?

Perché avevo la mia testa e, dopo quel blockbuster europeo firmato da Annaud, me ne tornai a New York per lavorare nel mondo della moda dove mi pagavano molto bene. I provini? Ok, li avrei fatti nella Grande Mela, d’altronde chi aveva voglia di trasferirsi a Los Angeles… Poi, come racconto bene nella mia autobiografia ‘Io, Aristoteles, il negro svizzero’, in quel periodo ci diedi dentro con la droga. Droga pesante. Non rispondevo al mio manager anche per tre giorni di fila, ero sempre strafatto e i miei dark times mi fecero perdere ben altro che delle opportunità cinematografiche… Ben presto la mia battaglia divenne tra il vivere o il morire.

Aristoteles si era definitivamente perso?

Purtroppo sì. Per mia fortuna a fine anni Ottanta andai in rehab e, impegnandomi non poco, ne venni fuori. Lo feci in primis per mia madre, questo ti pregherei di metterlo nell’intervista. Con tutto l’amore che mi aveva dato fino a quel momento, non si meritava affatto un figlio junkie.

Pensi che un terzo capitolo de L’allenatore nel pallone arriverà mai nelle sale oppure quel culto anni Ottanta è meglio lasciarlo stare dove sta?

Onestamente non lo so. Lino ormai è un po’ avanti con l’età e, dopo aver già fatto ‘L’allenatore nel pallone 2’ nel 2008 (in cui appare anche Althaus in un breve cameo. Ndr), magari a questo giro non se la sente. E poi quel film non avrebbe senso se non ci fosse anche Sergio Martino alla regia e in fase di sceneggiatura… Il fatto è che una pellicola del genere o la realizzi impegnandoti al 100%, con ognuno al proprio posto o – come dici tu – è meglio lasciar perdere.

Potreste fare una specie di reboot, no? Con te che fai il padre di un giovane Aristoteles e Lino Banfi una specie di santone della panchina ormai fuori dai giochi. Un po’ come ha fatto Sylvester Stallone/Rocky in Creed

Questa è una idea di trama che ogni tanto salta fuori, soprattutto sui social. La verità? Io un film così lo farei eccome perché, ora come ora, il mio sogno più grande sarebbe quello di tornare a recitare in Italia. Chissà…

Ultima domanda: quando ti chiedono un autografo scrivi Urs Althaus o… Aristoteles?

In Svizzera scrivo sempre Urs Althaus perché Aristoteles è una creatura italiana al 100%. Perciò, quando sono ospite da voi, firmo volentieri col nome del personaggio che mi ha cambiato la vita. Perché, sai, Urs è Ari e Ari è Urs. Non c’è proprio modo di scindere quei due.

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