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Drazen Petrovic e il cuore di Zagabria

Stefano Olivari 17/12/2014

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Siamo però grandi cultori anche del presente, oltre che del passato. Grazie alla dirigente Martina Sourek Dmtrovic e al team manager Igor Kolaric siamo entrati nella sala delle coppe del Cibona, che avrebbe tutto per diventare essa stessa un museo, alzando indegnamente la Coppa Campioni 1985 come se l’avessimo vinta noi (ed in effetti all’epoca facemmo un tifo enorme, insieme a Sergio Tavcar, per i croati), ma soprattutto al campo di gioco pochi minuti prima dell’allenamento della prima squadra. Il palazzetto attuale non è quello dove si sono giocate la maggior parte della partite del quadriennio di Drazen, perché fu inaugurato solo per le Universiadi del 1987, ma accarezzare un parquet toccato dal Mito è stata lo stesso un’emozione fortissima. Pochi tiri effettuati in borghese, anche con buoni esiti, davanti a un giocatore perplesso, sono bastati. Interviste a parte (metteremo tutto nel libro), il nostro blitz si è concluso con la doverosa visita al cimitero Mirogoj e con un caffè preso insieme a Kolaric, milanista da blitz in curva Sud in onore di Boban (Kovacic scalda meno), nel bar Amadeus, tuttora gestito dalla famiglia Petrovic. Nelle brevi pause abbiamo tormentato incolpevoli ragazzi croati con domande su Petrovic (anche chi è nato dopo la sua morte e non segue il basket ne parla come di un personaggio del presente) e sull’annosa questione degli accenti: inglesizzare tutto o fare i puristi? La maggioranza ci ha consigliato di inglesizzare… Un peccato non avere avuto il tempo di vedere più cose di Zagabria, città piena di locali per tutte le esigenze, di giovani, di straordinari palazzi che a Trieste o Vienna verrebbero definiti mitteleuropei. Da tornarci anche senza il pretesto della pallacanestro, però se in quei giorni il Cibona gioca in casa è meglio.

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