Winning time, nascita dei nostri Lakers

15 Luglio 2022 di Stefano Olivari

Troppo facile per noi cadere nella rete di Winning Time – L’ascesa della dinastia dei Lakers, la serie televisiva HBO vista qualche settimana fa su Sky Atlantic. Abbiamo straletto il libro da cui è tratta (Showtime di Jeff Pearlman), ma soprattutto abbiamo iniziato a vedere partite NBA nel 1981, dopo averle a lungo sognate grazie a Giganti del basket (dove scriveva Oscar Eleni, fra l’altro) e al Superbasket di Aldo Giordani. Prima su PIN, Prima Rete Indipendente, il canale della Rizzoli che aveva Maurizio Costanzo come personaggio di punta e già Dan Peterson come telecronista, poi su Canale 5, in quei memorabili sabato pomeriggio.

Sia nei pochi mesi su PIN, anche se quella stagione (la 1980-81) si sarebbe conclusa con la vittoria dei Celtics, sia soprattutto su Canale 5 (prima partita vista proprio i Lakers contro i Rockets di Moses Malone), la squadra di Los Angeles, allora l’unica perché i Clippers erano a San Diego, era la più presente, insieme ai Celtics di Bird e ai Sixers di Doctor J, e quindi si conquistò anche in Italia un significativo numero di simpatizzanti, conquistati da Magic Johnson e Jabbar, ma anche dall’atmosfera del Forum di Inglewood che respiravamo in differita di una settimana. Simpatizzanti che ovviamente avevano i Celtics come squadra più detestata, con il pubblico anche peggio della squadra.

Tornando a Winning Time, diciamo che se non lo si guarda con l’occhio dell’appassionato-maniaco di NBA si tratta di una bellissima serie, basata più sugli aspetti imprenditoriali della squadra che sul gioco (ma le scene di campo, con qualità delle immagini del genere oldie, sono credibili), estremizzando le caratteristiche dei protagonisti. Così Magic è sempre positivo e sorridente, Jabbar sempre ombroso e cupo, Jerry West sempre ossessionato e umorale, e così via. Chiaramente a dominare la scena è Jerry Buss, con la trovata  di strizzare l’occhio al pubblico uscendo e rientrando nel personaggio, vero artefice della dinastia dei Lakers, insieme alla figlia Jeanie che oggi è al comando. Impossibile per noi resistere al personaggio, con molti riscontri nella realtà, del puttaniere indebitato ma anche intuitivo, così come è impossibile non ammirare Claire Rothman.

L’ambientazione d’epoca, il racconto comincia nel 1979 e si conclude con il titolo conquistato nel 1980 dopo l’epica partita con Magic centro, permette battute e situazioni politicamente scorrette anche se non si va mai oltre i limiti imposti nel 2022, e molti attori sono stati scelti a prescindere dalla somiglianza con gli originali: su tutti Adrien Brody, improbabilissimo Pat Riley (nelle prossime stagioni allora Worthy potrebbe farlo Favino), in quel periodo secondo di Westhead, rappresentato in maniera macchiettistica (di solito lo sono i bianchi, tipo West ma anche Larry Bird, mentre i neri tutta gente equilibrata), con Shakespeare e tutto il resto, che a sua volta era stato il secondo di McKinney, cioè del vero ideatore dei Lakers da corsa, quelli presi in mano da Magic, prima di schiantarsi in bici.

Serie che è stata molto criticata da nerd, quelli che ti recitano a memoria il payroll degli Hornets e guardano la Skills Challenge, e da ex nerd, quelli che ti spiegano che Curry non avrebbe nemmeno potuto portare le borse a World Free, ma che a noi è piaciuta. Tante parti sono forzate o semplificate, ma è una fiction basata su una storia vera e non un documentario. Visto che nella prima scena c’è Magic che scopre di essere sieropositivo, dovremmo avere davanti ancora 11 stagioni: molto bene.

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