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Vraghinaroda, l’arte di odiare il popolo e il pop

Stefano Olivari 24/09/2016

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L’ultimo libro scritto da Tommaso Labranca, pochi mesi prima della sua morte, è uno dei più duramente labranchiani della sua sterminata produzione. Vraghinaroda – Viaggio allucinante fra creatori, mediatori e fruitori dell’arte ci dicono sia già introvabile: prodotto dalla sua casa editrice, la 20090, tiene davvero fede alla promessa del sottotitolo. Un saggio che di romanzato ha soltanto alcuni nomi storpiati in funzione anti-querela, scritto in primissima persona da un intellettuale appassionato di arte contemporanea ma per sua fortuna bene inserito nell’editoria commerciale e quindi senza bisogno di favori o marchette da parte dei personaggi che cita.

Dopo decenni di mostre, inaugurazioni, conferenze stampa, eventi, provocazioni più o meno fasulle, Labranca può raccontare in maniera spietata la fauna che gira intorno a un mondo dove niente è oggettivabile e dove quindi quasi chiunque può dalla sera alla mattina improvvisarsi giornalista, critico, curatore, spettatore, addirittura artista una volta usciti dalle gabbie del figurativo. L’importante è essere ricchi di famiglia o avere un lavoro ‘vero’ che alle sei del pomeriggio consenta di travestirsi da persona controcorrente e fiondarsi in una delle tante situazioni para-artistiche che una città come Milano (ma non solo Milano) propone. Oggi che una performance, una provocazione, una situazione artistica sono alla portata di tutti, la verra arte è quella di farsi prendere sul serio. E spesso al netto del marketing rimane poco. Lunghissima quindi la galleria di artisti detestati da Labranca: Ai Weiwei, Banksy, Fabio Novembre, tutti quelli che credono di essere nella Factory di Warhol (che Labranca invece ama, se non altro per l’onesto cinismo), Bjork, Marina Abramovic, quelli di movimenti letteralmente inventati come l’Arte Povera, per non parlare di chi di fronte all’arte ha un atteggiamento da scolaretto in gita che si sente obbligato a rimanere a bocca aperta (tipo Gramellini), timoroso di dire che il re è nudo. Tutti riferimenti volutamente pop.

Tre sono le macrocategorie del popolo dell’arte individuate da Labranca: la tribù dei Charlie (dalle opere di Cattelan e di altri, ispirate alla famosa scena di Apocalypse Now), il cui tratto distintivo è l’arroganza a prescindere dal successo, quella delle Santexuperine Scalze (donne, ma anche uomini, con qualche lettura alle spalle e felici di esserci pur senza capire, sempre convinti di essere impegnati per una buona causa) e quella dei Vraghinaroda. Il primo gruppo crea l’arte contemporanea, o più spesso è convinto di crearla, quando in tutto il mondo non più di venti persone hanno un reale seguito critico e di mercato. Il secondo semplicemente dell’arte fruisce, ma senza ritenersi normali spettatori bensì una elìte. Il terzo gruppo è la traslitterazione di un’espressione russa che significa ‘Nemici del popolo’ e che ha avuto il suo momento d’oro, se così si può dire, quando Stalin la usò per definire persone di cui bisognava sbarazzarsi, per il bene comune, senza stare troppo a cercare prove dei reati commessi. Il Vraghinaroda è, in sintesi, un mediatore: critico, gallerista, giornalista, curatore, storico, editore, quasi sempre come hobby. La sua caratteristica principale è odiare il popolo, nel senso ovviamente di piccola borghesia. Il vraghinaroda non ha alcun interesse reale verso l’arte, vuole spingere soltanto la carriera dei suoi amici e usare un frasario per iniziati che solo ascoltato attentamente rivela la propria pochezza.

Il libro è pieno di episodi di arte vissuta, di analisi esilaranti e anche profonde (quella sulle fabbriche e gli oggetti industriali riconvertiti è degna dello Houellebecq di La Carta e il territorio), di lampi di genio, in più ha il grande pregio di poter essere compreso, nonostante i tanti riferimenti, anche dai piccolo borghesi detestatati dai Vraghinaroda. Qui sta la chiave dell’ideologia labranchiana, applicata non soltanto all’arte contemporanea: niente è indispensabile, l’arte (mettendoci anche letteratura, cinema, eccetera) è spesso interessante ma ancora più spesso è fuffa e vedere il popolo in coda per certi eventi che per motivi inspiegabili diventano obbligatori, mentre i vraghinaroda sghignazzano, lo fa stare male. Non è un’esaltazione dell’ignoranza, ma della consapevolezza. Da ricordare quando qualcuno per impressionarvi ad un aperitivo equo e solidale cita Deleuze, contro il popolo e più ancora contro il pop.

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