Tonya, la campionessa degli esclusi

8 Maggio 2018 di Indiscreto

Il migliore film sportivo degli ultimi anni è senza dubbio Tonya, anche perché non è un vero film sportivo ma una storia di bianchi poveri e incazzati di provincia (East Portland) che difficilmente trova spazio nella cinematografia mainstream, ormai rivolta ai ragazzini o ai buoni sentimenti, né tantomeno in quella d’autore in cui gli emarginati sono di solito neri, omosessuali, immigrati, madri coraggio, handicappati, bambini abusati, eccetera. Visto con colpevole ritardo qualche giorno fa al cinema Ariosto, a poche file di distanza da Federico Buffa (e forse anche Ridge Bettazzi, che ancora aspetta il biopic su Klopp), Tonya non lascia indifferenti. Lo sport ovviamente c’entra perché il film diretto da Craig Gillespie è una versione pseudo-documentaristica della storia di Tonya Harding, pattinatrice su ghiaccio due volte ai Giochi Olimpici (fu quarta ad Albertville 1992) ma ricordata soprattutto per l’aggressione alla collega Nancy Kerrigan qualche settimana prima dei Giochi di Lillehammer 1994, ideata dal suo (suo di Tonya) ex marito ed eseguita da una banda di disadattati mitomani.

Un caso che fece davvero epoca in tutto il mondo, contrapponendo sul piano mediatico la buona Kerrigan alla cattiva Harding, fra l’altro amiche fino al momento della bastonata al ginocchio che costrinse Nancy a una corsa contro il tempo per partecipare a Lillehammer dove pur azzoppata confermò l’argento di due anni prima (Tonya fu ottava). Una storia stranota, non fateci copiare da Wikipedia ma andate direttamente su Wikipedia, con le responsabilità della Harding probabilmente meno gravi rispetto a quanto dice la condanna esemplare invocata da mezza America e poi arrivata. Una storia che nel film però non oscura quella di Tonya (interpretata da una splendida Margot Robbie, da noi apprezzatissima in Pan Am e troppo bella rispetto all’originale: una onesta concessione al botteghino) e di tutte le Tonya del mondo, ragazze di provincia o di periferia che sognano in grande pur vivendo in piccolo, anzi piccolissimo. Centrale è la figura della madre LaVona, cameriera che su di lei riversa tutta la sua voglia di riscatto pur essendo anaffettiva e cosciente che quelli come come Tonya e come lei il fallimento ce l’hanno nel DNA, arrivando al punto di pensare di meritarsi ogni male.

Solo così si spiega il matrimonio da adolescente con il debole Jeff Gillooly, portato avanti nonostante violenze di ogni tipo e un atteggiamento infantile (il marito la picchia, ma lei si arrabbia quando non le prende i gelati della sua marca preferita) portato all’estremo. Solo così si spiega il rapporto con lo sport, unica forma credibile di riscatto per chi è fuori da ogni giro, non ha la possibilità di andare al college e crede che il sogno americano sia fondamentalmente una truffa. Per questo Tonya non lancia messaggi storici, ma spera almeno di salvare se stessa. Per questo Tonya quasi non ascolta le sue allenatrici, da Diane Rawlinson (praticamente una sosia di Nancy Brilli)a Dody Teachman, che cercano di farla aderire a un canone. Il canone a cui la Kerrigan, peraltro di origini umili come la Harding, aderiva con più entusiasmo.

Il problema sportivo è che nel pattinaggio artistico Tonya era bravissima (prima americana ad eseguire il triplo axel), ma non rappresentava il modello fatina che molti spettatori e spettatrici del pattinaggio amano e si aspettano. Per non parlare delle scelte musicali… Massacrata regolarmente dai giudici per la parte artistica, nella sua esibizione con la musica (Sleeping Bag) degli ZZ Top c’è tutta la rabbia e la periferia del mondo. Un inviato di Repubblica parlerebbe di white trash e di America che ha votato Trump, un normale piccolo borghese o proletario (ormai non c’è differenza: chi sta tutto il giorno a digitare cazzate su una tastiera non ha più chance di un cameriere) di ogni parte del pianeta, anche senza storie tragiche alle spalle, potrà invece riconoscersi.

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