The Bridge, Sting ancora vivo

22 Novembre 2021 di Simone Sacco

Che Sting – 70 candeline lo scorso 2 ottobre – stesse preparando un album di semplici canzoni (e non un progetto colto tipo quello di culto in coppia col liutista bosniaco) ce ne eravamo già accorti da alcuni basilari indizi. Il più clamoroso, Covid permettendo, è rappresentato dal tour mondiale che l’artista originario del Northumberland sta tuttora portando avanti. Quello, per la cronaca, di supporto al disco My Songs (uscito nella primavera del 2019) passato di recente anche per Taormina e incentrato sulla rilettura dei suoi brani più celebri, sia in veste da solista sia da ex leader dei Police. Un greatest hits coinvolgente, ma pure ambiguo visto che l’energia di certi pezzi storici resta irriproducibile (presente So Lonely o Demolition Man?), Fragile o Every Breath You Take non le puoi stravolgere più di tanto e risuonare Fields Of Gold senza quel magico arpeggio (e in My Songs purtroppo accade) sarebbe come dire che il Maradona di Siviglia sia stato lo stesso di Napoli o del Boca Juniors.

Sting si stava comunque riavvicinando al concetto di songwriting duro e puro anche perché dopo un musical mai del tutto decollato (The Last Ship), un LP reggae in collaborazione con Shaggy (il simpatico 44/876) e l’antologia di duetti della scorsa primavera (Duets che conteneva anche quella September cantata con l’amico Zucchero), il suo periodo interlocutorio, da un punto di vista discografico, poteva dirsi bello che finito. Era di nuovo ora di tirarsi su le maniche e tornare ai tempi di 57th & 9th, il suo ultimo album in studio datato 2016. Che, tra parentesi, era pure un bel dischetto rock: compatto, breve, l’equivalente in musica del lupo che perde il pelo ma non il vizio.

Da qualche giorno, invece, ci ha raggiunto The Bridge, quindicesimo lavoro solista del bassista inglese e fin dai primi ascolti dall’approccio molto incoraggiante. Capiamoci: qui non abbiamo a che fare né con un nuovo The Dream Of The Blue Turtles né con un parente stretto di Ten Summoner’s Tales. Quello d’altronde era un altro Sting; e, soprattutto, quelle erano vere band (dal fondo del bar: ridateci Vinnie Colaiuta!), mica semplici turnisti. Anche se, a dircela tutta, oggi ci andrebbe bene anche un lontano cugino di The Soul Cages (disco scurissimo del 1991 al quale restiamo particolarmente affezionati) o un inaspettato colpo di coda che faccia riferimento al pop solare e jazzato di Brand New Day.

No, The Bridge resta un altro paio di maniche, perfino clamoroso se uno si sofferma sul suo poker iniziale. Rushing Water difatti è un apripista con una chitarrina liquida alla Andy Summers (dopo che per anni quel sound, dagli Strokes in giù, lo hanno copiato tutti gli adepti dell’indie rock più fighetto) ma con un drumming pulito che mai scambieremmo per quello irrequieto di Stewart Copeland. La seguente If It’s Love, fin dal fischio iniziale, è un numero pop che vorrebbe essere l’erede di All This Time, ma si perde dietro troppo handclapping e ottimismo di maniera. Un buon singolo, in ogni caso. The Books of Numbers è rock, ma di quel rock elegante e inspessito da fiati black che aveva già trovato spazio in un disco di passaggio come Mercury Falling (1996) mentre Loving You è il vero capolavoro del lotto: una canzone blues, ombrosa, decisamente elettronica. Una specie di It’s Probably Me più opprimente e giocata sull’idea di un amore maledetto, quasi in orbita stalker, un po’ come fu l’idea narrativa alla base di Every Breath You Take. Da mandare in loop almeno una decina di volte prima di non liberarvene mai più.

Si prosegue con Harmony Road, traccia arzigogolata dove spunta, ad un certo punto, il sassofono sensuale di Branford Marsalis ed è subito malinconia targata 1985. Da qui in poi The Bridge si perde un poco tra tentativi goffi di rifare Shape Of My Heart (For Her Love), numeri folk (The Hills On The Border e la stessa titletrack), l’eleganza di The Bells of St. Thomas e quell’esperimento chic tra acustica, elettronica e jazz che è Captain Basement. L’immancabile Sting d’essai, ci verrebbe da aggiungere. Fine? No perché nella deluxe edition spunta ancora del folk (Waters of Tyne), dell’altro jazz moderno e laccatissimo (Captain Bateman’s Basement) ed una gran cover di (Sittin’ On) The Dock of the Bay con Gordon bello pimpante nel rendere omaggio al suo eroe Otis Redding. Non era semplice.

Giusto in conclusione: cosa ci lascia The Bridge? Forse il dubbio che Sting, alias il proprietario di quella villa del 1500 a Figline Valdarno con vista mozzafiato sulla campagna toscana, potrebbe donarci un disco così ogni due anni monetizzando poi con dei tour zeppi di classici. Il segreto di Pulcinella. Se non lo fa vuol dire che per lui, da buon vignaiolo, l’arte di scrivere una bella canzone resta anche a distanza di tanti anni un processo attento e laborioso. In The Bridge ce ne sono almeno 3 o 4 quindi spetta a noi la fede di turno. La fede di abbattere il muro del pregiudizio per costruire un ponte che unisca quest’album ai tanti capolavori del passato. La fede che Sting sia ancora vivo. Spoiler: per noi lo è.

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