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Cinema

Il cane dei Navy Seals

Stefano Olivari 26/02/2013

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Zero Dark Thirty è il grande sconfitto degli ultimi CIA (già Academy) Awards: una statuetta di quelle minori e quattro nomination. Ma soprattutto è un film senz’anima, lo diciamo da superfan di Kathryn Bigelow e della sua visione del mondo. Meno onesto di quelli con Chuck Norris e Van Damme come trama, banale nella sceneggiatura, nelle parti storiche palesemente scritto sotto dettatura o almeno condizionamento da parte di qualche organismo governativo. Si parla, come è noto, della caccia post 11 settembre a Osama Bin Laden, durata quasi dieci anni fra false informazioni, depistaggi, interrogatori, torture, attentati e colpi di fortuna. Protagonista è l’agente CIA Maya, una specie di Michele Apicella della Bigelow, che ovviamente ha le grandi intuizioni ma è malvista dai carrieristi e dai burocrati (questa l’abbiamo già sentita). Alla fine  avrà l’intuizione giusta e così un commando di Navy Seals riuscirà a penetrare nel nascondiglio del capo di al-Qaeda e ad ucciderlo (con le armi in pugno, almeno nel film). Il rischio di fare la Leni Riefenstahl di Obama si concretizza già a inizio film nelle famose scene in cui si mostra il waterboarding, cioé la tortura usando l’acqua: temporalmente lo si mostra usato negli anni della presidenza Bush (W.), mentre poi negli anni decisivi per il ritrovamento di Bin Laden, coincidenti con la presidenza Obama, il waterboarding improvvisamente sparisce. Forse gli irriducibili di al-Qaeda saranno stati convinti dalla speranza kennedyana, magari sarà intervenuta la Farnesina. Alla fine i Navy Seals, nel film molto simili ai surfisti di Point Break (però di destra, visto che per ammazzare il tempo giocano a football… ah, ma lo facevano anche in Point Break: il football è quindi di destra o di sinistra?), a bordo di due elicotteri piombano  ad Abbotabad e fanno quello che devono fare. Incredibile che un film girato con questo dispendio di mezzi si chiuda con il riconoscimento ‘light’ del cadavere e l’assenza di quanto avvenuto da quel momento fino alla presunta cremazione. A livello di ispirazione la Bigelow è lontanissima da The Hurt Locker, geniale tratteggio della psicologia maschile con la guerra come pretesto narrativo, e in definitiva non abbiamo capito dove volesse andare a parare, visto che dal film ha preso le distanze anche un Obama che sembra comunque lontano, sia in senso guerrafondaio che in senso progressista, da questi temi. Confessiamo che come nel Gladiatore e in mille altri film, tifavamo solo per la buona salute del cane. Un bellissimo pastore tedesco, per sua sfortuna impossibilitato a dimettersi, che i Navy Seals portano con loro in missione. Quando tornano alla base il cane non si vede più, magari la Bigelow non l’ha inquadrato. Speriamo che nella versione Director’s Cut riappaia, perché lui non ha colpe.

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