Esercizi di ciclostile
Tanti Vandenbroucke
Stefano Olivari 15/06/2007
1. Martedì 19 giugno. A Ginevra. Davanti a rappresentanti di squadre ProTour, direttori sportivi, organizzatori, medici e corridori. Udite udite, signore e signori: Patrick McQuaid (probabilmente) parlerà. Il presidente dell’Unione Ciclistica Internazionale si rivolgerà alla platea. E aprirà bocca, lasciando tutti i presenti con il fiato sospeso. In attesa di uno straccio di decisione, di una minima assunzione di responsabilità, di un’effettiva presa in carico della situazione, compromessa così com’è. La scottante materia all’esame dei colà convenuti – del trattamento da riservare a squalificati, deferiti e indagati vari, di varia nazionalità, dopo varie operazioni contro il commercio e l’uso di sostanze e prodotti vietati – ha da essere affrontata con indispensabile uniformità di giudizio e di risoluzioni: valide per tutti, una volta per tutte. Sarà determinante apprendere, finalmente, chi potrà correre o non correre cosa, e fino a quando. E sarà interessante conoscere il perché si è poi giunti ad approntare tale misura, anziché un’altra. Che succederà, al dunque? Por favor: per non scontentare nessuno, meglio civilizzare anche l’ultima isla encantada rimasta, nell’arcipelago internazionale delle due ruote. Quella strana Spagna sbarazzina e libertaria, dove i Basso ancora gareggiano. E vincono a braccia alzate, con mucho gusto. Olè.
2. Volendo generalizzare, nel particolare del mondo dello sport: l’aspirante suicida è un aspirante campione che non ce l’ha fatta (e che non ce la farà). Volendo sopra-generalizzare, nel sotto-particolare dell’ambiente ciclistico: il disperato è un ex-post-corridore che c’è con la gamba ma non c’è con la testa. È uno che si sente perseguitato da tutti e che non si sente con nessuno. È uno che ha problemi con la famiglia, con gli amici, con i vicini di casa, con i colleghi, con il procuratore, con l’ultimo direttore sportivo, con il suo primo tifoso, con la stampa, con l’anti-doping, con l’anti-droga, con la polizia, con la guardia di finanza, con la giustizia sportiva, con la giustizia ordinaria. È uno che non crede di poterne risolvere mezzo, di tutti ‘sti problemi. È uno che non tornerà più quello di prima. È uno che proprio non riesce a immaginare un dopo. Insomma, è uno che aspetta solo di vedere come andrà a finire. Volendo generalizzare e basta: il caso di Frank Vandenbroucke non è un caso isolato. Anzi, non è nemmeno un caso. Ma la logica (tragica) conseguenza di una causa persa, contro il male della depressione. Perché i VDB – bene che vada – sono comunque tanti. E i Masciarelli, saranno comunque di più?
3. Damiano Cunego è il grande sconfitto dell’ultimo Giro d’Italia, il primo dei battuti e degli abbattuti. La maglia bianca del Tour de France 2006 veniva da una stagione trascorsa a rincorrere una condizione più che accettabile, poi agguantata solo alla fine di luglio, giusto alla conclusione della Grande Boucle (ottima quella prestazione contro il tempo, a Montceau-les-Mines). Correre Giro e Tour, per fare classifica in entrambe le gare, è davvero un’impresa per pochi. Ma il veronese s’è sbattuto come non mai, portandola a termine dignitosamente. Chapeau! da tutti i suoi detrattori, anche da quelli che «la maglia rosa 2004 l’ha indossata per sbaglio, proprio lui che è un corridore da classiche o al limite da brevi corse a tappe». E giù applausi scroscianti, soprattutto per quell’esperienza maturata Oltralpe. L’anno in corso doveva quindi registrare i progressi del campioncino, forse il massimo favorito, in un Giro al minimo dei contendenti (Di Luca passava per incognita, Simoni e Savoldelli passavano per piazzati, Schleck passava per il fratellino di). Invece niente. Visti i risultati, data l’attesa, è più che giusto parlare di delusione. Ma non è neanche scorretto fare i conti con l’età di chi ha toppato, bontà sua: Lance Armstrong, a 26 anni, vinceva ancora il Renania e il Lussemburgo. Con quelli che «la maglia rosa 2004» ecc., se ne riparlerà tra un decennio.
Francesco Vergani
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