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Surfin’ Italy, intervista a Franz Fiorentino
Glezos 18/02/2015
Il surf e l’Italia. Binomio bizzarro per molti, e se coniughi tavole e onde allo skyline di Milano l’accoppiata rasenta l’assurdo. Mancandolo di brutto, col capoluogo lombardo clamorosamente in corsa per la corona di Capitale Del Surf. Sul suo libro ‘Surf Play’ (Volo Libero Editore), scritto insieme a Tommaso Lavizzari, e in una sera di pioggia classicamente meneghina, un nome eccellente della scena come Francesco Aldo ‘Franz Dude’ Fiorentino ci illumina di luce rigorosamente fluo.
Milano e il surf: accoppiata improbabile, vista dal di fuori.
Francesco Aldo Fiorentino: L’ho scritto nel libro: sono uno che è nato a Milano e se ne vanta, e in questo non ho mai abdicato. Il surf con Milano c’entrerebbe poco, se questa città non fosse quello che è e se l’Italia non fosse l’Italia, nel senso che il surf qui è nato come impulso misto a esigenza. Da noi la scena surf nasce a inizio anni Settanta sulla costa ligure, da Bogliasco in giù. Ed è stata una scoperta lenta, quasi come quella autoctona degli hawaiani o dei californiani: in Liguria era un’epoca di pionieri come i fratelli Fracas, che non facevano proselitismo al contrario dei viareggini d’inizio anni Ottanta, che magari lo facevano anche per tirarci fuori dei soldi.
Come si inserisce Milano nella scena?
In modo quasi automatico, dato che fin da allora le agenzie di distribuzione dei marchi erano qui. E prima ancora che in Italia si diffondessero i negozi di settore qui le tavole le trovavi, con gli americani che venivano e vedevano Milano un po’ come il Vietnam in ‘Apocalypse Now’, con loro che si portavano dietro la tavola da surf. E poi a Milano c’era anche il substrato culturale non sportivo, che nel surf è sempre stato importante: qui c’era il Professor Bad Trip che veniva dalla scena punk del Virus e che faceva fumetti che mischiavano il punk col surf, al punto che ‘Rockerilla’ pubblicò nel 1989 l’episodio ‘Franz e il surf della bara’.
Fred Buscaglione a fine anni Cinquanta era convinto che “se Milano non ti sposa dove vai?”. Ma nel surf…
Be’, innanzitutto tieni presente che Milano è vicina al mare, se corri un po’ ci metti un’ora e mezza ad arrivare a Bogliasco. Poi, oltre all’aspetto per così dire culturale, tutto ha sede qui: la moda, le riviste, i marchi (Sundek, Bear, Quicksilver, eccetera) e tutte le agenzie di comunicazione. E soprattutto qui ci sono i materiali per fare le tavole, le resine, gli espansi. Perché la Milano imprenditoriale non sarà più quella degli anni Sessanta e Settanta, ma la fabbrichetta in Brianza che lavora i materiali c’è ancora. E poi ci sono i soldi per muoversi: agli inizi si andava sulla costa o a Biarritz, pochi anni dopo già si virava su Canarie o Australia.
Quando e come hai iniziato?
Nel 1985. Ero all’Isola d’Elba con amici d’infanzia e avevamo dei wind surf. Erano gli anni dei Righeira di ‘Vamos a la playa’, e pur venendo dalla cupezza del punk di quel periodo nell’aria c’era una certa allegria. Ma il wind surf non ci piaceva, lo vedevamo come una barca a vela per sfigati. Ci dicevamo: “Perché dobbiamo fare ‘ste stronzate con ‘ste vele da poveracci?”. Quindi abbiamo tolto la vela e abbiamo fatto senza. La tavola da wind era molto più lunga e pesante, la risposta completamente diversa, non stavamo in piedi, ma era un inizio. Tornati a Milano avevamo visto ‘Un mercoledì da leoni’ al Cinema Mexico, e lì abbiamo deciso: ok, facciamo surf, visto che onde come quelle all’inizio del film ci sono anche qua da noi. Poi avevamo letto che a Viareggio e a Bogliasco si faceva surf. “Dobbiamo procurarci delle tavole”, ci siamo detti. Parto e inizio a fare il giro di tutti i negozi da fine paninarismo, era il 1986 e iniziava la prima house music, erano i tempi di ‘Pump Up The Volume’, e c’erano queste bellissime t-shirt della T&C, col simbolo del Tao e con i fumetti sulla schiena, tutto fluo. In uno di questi negozi compro la mia prima tavola per 200.000 lire, che a quei tempi era un bello spendere.
Com’è stato il primo impatto con le onde?
Una cosa ridicola, lo ricordiamo ancora tra amici e non lo racconto mai. Siamo arrivati con le nostre tavole belle lustre, ma non sapevamo che ci voleva il leash (il cavo di sicurezza che si fissa alla caviglia per non perdere la tavola, nda), ignoravamo che ci volesse la cera particolare che si mette sul top per non scivolare, non sapevamo niente. Quindi era tutto un cadere, perdere la tavola, rincorrerla a nuoto: lo facessi adesso a 50 anni sarebbe infarto garantito. Però devo dire che queste lacune iniziali le abbiamo colmate in fretta.
Come ci siete riusciti, in era pre-internet?
Memori delle nostre esperienze punk, io e il mio amico Giovanni Torti avevamo pubblicato ‘Bringa Paraffa’, una fanzine di surf che prendeva il nome da un nostro modo di dire: “Porta la paraffina”, perché senza quella non stavi in piedi sulla tavola. Poi c’è stato il passaparola, le inserzioni sui giornali – da ‘Windsurf’ a ‘Secondamano’. A Milano c’era gente come Matteo Ferrari, che aveva vissuto a Hong Kong coi genitori e già faceva surf, lui ci ha dato una grossa mano. Poi via via si è creata la scena, che fin dal principio era molto coesa.
Per te è stato l’inizio di quello che chiamano a volte abusivamente uno “stile di vita” che ti ha portato all’estero, e il legame tra surf e punk viene spesso a galla.
Da Biarritz alla California. Che non era quella degli anni Sessanta di ‘Un mercoledì da leoni’ ma quella del 1989. Il surf io l’ho sempre fatto seriamente, ma non l’ho mai preso molto sul serio. Per dirti, quand’ero piccolo facevo i modellini e cercavo di farli al mio meglio, ma non dicevo: “Sono un architetto delle riproduzioni in scala”. Nell’ambiente del surf grazie a Dio abbiamo avuto lo stesso imprinting, un po’ hawaiiano ma anche molto americano, ovvero fare le cose in maniera seria ma senza prendersi troppo sul serio. E probabilmente è per questo che il surf non è mai diventato uno sport: non è una pratica anglosassone o europea, ma una cosa che è riuscita a sfuggire alle Hawaii e ad arrivare a degli spostati in California. La faccenda dello stile di vita è un tormento che mi becco da quando ho aperto il mio locale, il Surfer’s Den a Milano. Temo sempre di essere accostato allo sport estremo, come i cretini che si lanciano nei vulcani col paracadute. Mi ripeto: il surf è prima di tutto un’attitudine mentale, anche se la tendenza attuale è quella alla Kelly Slater, surf-atleta della madonna che però ai miei occhi resta solo un atleta e in un certo senso stride col concetto old school di non-sport a cui accennavo prima. La maggioranza cerca di preservare il senso originario dell’attitudine, è contraria ai contest e all’aspetto competitivo, basta guardare allo sviluppo che il surf ha avuto ovunque, dalle Hawaii alla California: più che di record è una questione di civilizzazione culturale, per usare un parolone.
Che caratteristiche si devono avere per diventare surfer?
Soprattutto il divertimento: il surf lo fai per diletto. E come dice il sottotitolo del mio libro, il migliore è sempre quello che si diverte di più. Imparare a stare in piedi sulla tavola non è così difficile e si può tranquillamente evitare di andare a una scuola di surf, come la mia a Levanto: semplicemente, devi stare in piedi nel punto giusto della tavola e nel punto giusto dell’onda. Non sarà così dura riuscirci, se io e i miei amici ai tempi abbiamo imparato da soli. Non c’è altro requisito che quello di volerlo fare.
I luoghi e gli spot più in voga in Italia.
I posti più da hype sono Levanto, Andora (detta anche Andorange, adattamento maccheronico di Orange County), poi Diano, Livorno e Marina D.C. (di Carrara). A Levanto trovi schierati anche 300 surfisti in piccoli spot come il Casinò (con l’accento), il Centrale, la Conigliera. Quando penso che anni fa ci ritrovavamo in 5 o in 10…
Locale, design e realizzazione di tavole, scuola a Levanto: il tuo nome evoca il surf a 360 gradi. Da anni il tuo Surfer’s Den è un club di riferimento a Milano, non solo per il livello dei cocktail.
L’ho aperto da 15 anni. Agli inizi nasceva in un seminterrato in zona San Felice, una roba borghesissima. Poi il 19 novembre 1999 alle ore 19:00 ho aperto in via Mantova 13, e cinque anni fa ci siamo spostati in Largo Caduti del Lavoro. In due parole, il Den è surf, punk, design, cultura, skate e convivialità. L’atmosfera agli inizi era molto più ‘wild’ e qualcuno questo lo rimpiange, ma la gente che gira adesso di notte non è più quella d’area alternativa di anni fa, e per me è molto meglio adesso. Tra dj set e serate a tema qualcuno mi dice che il nuovo Den è più pettinato. Ma cosa dovrei fare, farmi accoltellare da uno spostato?
Poi sei passato a fare le tavole a livello nazionale.
Ho iniziato a farle quando ho aperto il locale. Creo i modelli delle tavole, poi decido che grafica devono avere. Essendo tavole custom made, le progetto in base alle caratteristiche di chi le commissiona: peso, statura, capacità di surfare e tipo di spot che frequenta di solito. Produco due tipi di tavole: Surfer’s Den Daily Surfboards (tavole classiche e custom made) e Surfer’s Den Special Surfboards, che sono disegnate da Giulio Iacchetti e Matteo Ragni, entrambi due volte compassi d’oro. Per le decorazioni delle prime mi avvalgo di Explo Pinstriping e VM Vehicles. Ci tengo a sottolineare che mi avvalgo di altri preziosissimi collaboratori: su Roma e il Sud mi appoggio ad Andrea D’Angelo di X Surfboards, anche se il grosso della produzione la facciamo a Milano dove è molto importante l’apporto di Antonio Aguirre Chavez. Sta andando bene, stiamo arrivando anche all’estero e questa attività mi prende sempre più tempo.
Parliamo di costi: che budget devo avere per iniziare a surfare?
Per l’attrezzatura completa (tavola, muta, sacca e pinne) tra i 1.000 e i 1.500 euro in totale. Diciamo che con 1.500 stai largo, con tutto di prima scelta. Con una manciata di ore in una scuola come la mia a Levanto (che si appoggia su Deep Inside, con le lezioni di Gabriele Raso) impari a stare in piedi sulla tavola, poi sta a te: è come imparare a camminare, più lo fai e più sei stabile. Non c’è bisogno di poter contare su una particolare forma fisica, considerato che nel surf è più importante la piscina che la palestra.
Chi è il surfer nel 2015? C’è differenza tra il surfer dei film vintage e quello di adesso?
6 o 7 anni fa ti avrei risposto con la sicumera che ho avuto a inizio intervista. Ma con questa domanda mi spiazzi, perché oggi ci sono diversi tipi di surfer: quello che posa, il soul surfer e la gente come me, che ha iniziato tra amici tanti anni fa per fare qualcosa che gli piaceva. È difficile rispondere perché adesso il surf è più moda che altro, almeno per tanta gente. Di recente a Levanto ho incontrato un amico che non vedevo da 20 anni, che mi ha detto: “È meglio se esco dall’acqua, perché se parto li falcio”.
Ti ritieni un colonizzato culturale filoamericano?
Mah, tutti sono colonizzati. Diciamo che mi sento un rielaborato della cultura americana: se non lo fossi ascolterei ad esempio Paolo Conte – che odio – e farei altre cose. Quindi in sostanza posso definirmi un filoamericano. Io ho sempre avuto come riferimento due civilizzazioni, sarà perché sono nato in piena guerra fredda: Weber e Marx, l’etica capitalista e quella marxista. Nel lavoro cerco di avere un’etica capitalista, ma pur sempre etica. E al tempo stesso non puoi accusare uno che legge Herman Melville o Mark Twain di essere un colonizzato, è un gioco sporco: cosa mi contrapponi, Pirandello?
Disco, libro e film che proiettano il surf come lo vedi tu.
Per il libro – a parte il mio – direi la biografia di Miki Dora, uno dei più grandi surfisti di sempre. Come disco, dico ‘Mr. Moto’ dei Bel Airs, oppure qualsiasi cosa dei Barracudas. E come film pesco ‘Ride Giant’, per non menarla sempre sul mercoledì-da-leoni di ‘Big Wednesday’.
Spiega in due parole perché i Beach Boys non sono una surf band.
Prima cosa: nessuno di loro surfava. Seconda: la musica surf è essenzialmente strumentale, non ha un testo. Però ‘I Get Around’ resta un pezzo magnifico!
Intrevista di Glezos, in esclusiva per Indiscreto
Surfplay’, di Francesco Aldo Fiorentino e Tommaso Lavizzari. Con prefazione di Enrico Lazzeri. Volo Libero Editore, 13 €.
Surfer’s Den – Piazza Caduti del Lavoro 5, Milano – Tel. 3385916764
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