Un mercoledì da leoni, surf senza nostalgia

12 Agosto 2015 di Stefano Olivari

Ci sono film che devono essere rivisti almeno una volta l’anno, per trovare un dettaglio sfuggito o semplicemente darci la forza di andare avanti: uno di questi è senza dubbio Un mercoledì da leoni, il capolavoro di John Milius che ci impone di fare un’eccezione. Di solito siamo onestamente pro doppiaggio, senza lo snobismo della lingua originale per capire le sfumature (che senza doppiaggio sono proprio la cosa che ci sfugge, per nostra ignoranza), ma in questo caso la differenza fra la versione originale e quella doppiata in italiano è davvero un abisso: nella seconda siamo al livello, anche come qualità audio, di certi film porno in Super 8 che a suo tempo abbiamo consumato, del periodo d’oro di John Holmes. La storia di Big Wednesday è straconosciuta: protagonisti sono tre amici californiani, Matt, Jack e Leroy, della generazione che per prima dovette combattere (o combattere per non andare a combattere) in Vietnam.

Il film può essere diviso in quattro parti, associabili agli anni delle grandi mareggiate che riguardarono la California e fecero la gioia di surfisti professionisti e amatoriali: 1962, 1965, 1968 e 1974. Storie ordinarie di giovinezza, con nessuno impegnato a fondo in qualcosa e il Vietnam sullo sfondo (memorabili i tentativi di simulazione di ogni tipo di malattia, durante l’arruolamento) ma certo non protagonista. Il vero Vietnam, suggerisce in continuazione Milius (anche attraverso la figura di Bear), è la crescita, l’evoluzione, la trasformazione individuale e nei rapporti con il resto del mondo. Il surf, vera passione del regista, altro non è che un mezzo di comunicazione prettamente maschile, come potrebbe esserlo il calcio, con le donne lasciate dichiaratamente a fare da tappezzeria: in questo senso la scorrettezza politica di questo film, già evidente nel 1978, con gli occhi di oggi è clamorosa. Il più bravo dei tre è Matt, ai confini del professionismo, ma anche Jack (curiosità: l’attore, William Katt, nel film è figlio della sua vera madre, l’attrice Barbara Hale che da noi sarà per sempre Della Street, la segretaria di Perry Mason) e Leroy (curiosità bis, che tutti conoscono: in Point Break, altro grande film in cui il surf è un pretesto, fa il poliziotto collega di Keanu Reeves) sono bravi e ammirati nel sud della California.

Ma al di là dei mille aneddoti, che siamo troppo pigri anche per copiare dal web (Perché poi? Per chi?), dei quali il più famoso è senz’altro la cessione di parte degli incassi del film agli amici Spielberg e Lucas in cambio di parti degli incassi di Incontri ravvicinati del terzo tipo e Guerre Stellari (parentesi: l’unico film ad andare malissimo al botteghino fu quello di Milius), troviamo fondamentale il senso. È forse il più bel film sull’amicizia della storia, non perché abbia dialoghi più profondi (anzi, alcuni sono banali) degli altri, ma perché restituisce allo spettatore quello che dell’amicizia è il senso: non la routine, che la fa quasi sempre confondere con la frequentazione, ma l’esserci, magari anche a distanza di anni, capendo il momento.

L’ultimo quarto d’ora è da pelle d’oca, quando i tre amici si ritrovano senza essersi dati appuntamento e rendono onore alle migliori onde della loro vita, che poi sono anche le ultime. Si piange sempre, ci si risolleva soltanto quando Matt passa la tavola a un ragazzo ed accetta serenamente di essere diventato un persona diversa da quella di dodici anni prima. Forse anche migliore, lascia intendere Milius, che riesce quindi nel capolavoro assoluto: un film generazionale senza la furbizia dell’effetto nostalgia. Altro colpo di classe di un maestro del cinema per così dire ‘maschile’, da Conan il barbaro (regista) ad Apocalypse Now (sceneggiatore): quello di rendere sgradevoli i suoi protagonisti, nessuno è un eroe o un genio incompreso. Matt è alcolizzato, Jack troppo rigido, Leroy inconcludente: sono tenuti insieme soltanto dal surf e dall’amicizia disinteressata, non certo dall’abitudine o dalla convenienza. Da rivedere anche l’anno prossimo, fino a quando ci saremo.

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