Steffi Graf e l’ombra della Seles

19 Gennaio 2021 di Simone Sacco

Elena Marinelli, molisana e milanese d’adozione, un cognome che inevitabilmente sa di cinema italiano dei nostri giorni, scrive di tennis per Ultimo Uomo e fino all’anno scorso si è occupata di un breve podcast a tema chiamato Volée. Poi ha dovuto sospenderlo perché, spiega lei, «Nel 2020 si è fermato il mondo, tornei tennistici compresi, però mi è sempre piaciuto raccontare di più la storia, il contesto, che la cronaca del match». Ragion per cui nell’autunno scorso ha dato alle stampe il suo primo libro sportivo (per 66thand2nd) intitolato Steffi Graf – Passione e perfezione. Un titolo che dice già tutto e spiega oltre ogni tentativo di enfasi cosa sia stata per la Storia la tennista originaria di Mannheim e il suo debordante palmarès ricco di ventidue Slam (con ben sette Wimbledon) vinti tra il 1987 e il 1999. 

Evitando fortunatamente sofismi alla David Foster Wallace, le 231 pagine create dalla Marinelli – che noi ci siamo letti salutando una volta per tutte il 2020 – giocano da fondo campo quando c’è da spingere sul lato giornalistico della vicenda (parecchi incontri fondamentali della Graf sono raccontati punto per punto) e si spingono a rete quando infiocchettano qualche storia più legata all’immaginazione e al corredo psicologico dell’attuale signora Agassi. Una lettura piacevole, partecipe e approfondita (non era facile: la Graf non scriverà mai il suo Open da cui attingere a piene mani…) che abbiamo voluto portare al tie-break coinvolgendo l’autrice in questo scambio di vedute.  

Partiamo dalle basi: la scrittura è il tuo lavoro principale?

No, quello resta l’editoria digitale. Però non mi lamento: sono nata nel 1982 e ce ne stanno tanti di autori della mia età che si mantengono facendo lavori diversi da quello per cui sono portati. Io, prima di questo libro sulla Graf, avevo già scritto un romanzo (Il Terzo Incomodo uscito nel 2015. Ndr) mentre la mia passione per la scrittura nasce dal’amore per la letteratura sportiva sudamericana, Osvaldo Soriano in primis. Che poi da quelle parti la letteratura è letteratura tout court: l’aggettivo “sportiva” ci piace aggiungerlo qui in Europa.

Chi è stato il vero “terzo incomodo” nella carriera di Steffi?

Tu hai delle idee in proposito?

Mi verrebbe da dire il padre-padrone Peter (mancato nel 2013) che si è sempre frapposto tra lei e il suo amore per il tennis. Oppure Gunther Parche, lo psicopatico tedesco che, accoltellando alle spalle Monica Seles nel 1993, ci ha privato di una rivalità sul campo che a quei tempi stava raggiungendo il parossismo…

Si tratta di due metafore assolutamente plausibili, ma per me il “terzo incomodo” è sempre stato insito nel tennis stesso che resta comunque uno sport a tre: ci sei tu, il tuo avversario e le circostanze esterne del campo. La casualità della partita.

Roba che John McEnroe conosce alla perfezione…

Già. D’altronde che ne sai di che tempo farà in un incontro senza limiti cronometrici, come sarà il responso della folla o se l’arbitro ad un certo punto non ti farà infuriare… Nel mio romanzo Il Terzo Incomodo era la vita quella che si metteva in mezzo tra la protagonista e le sue azioni. Tra i miei temi narrativi ricorrenti penso che ci siano sempre stati sia la formazione del personaggio che il concetto di ostacolo. Tutte cose che col tennis si sposano benissimo. 

Realizzare una biografia su di una tennista che si è ritirata da oltre vent’anni (e di cui sono sempre circolate poche interviste) mi è sembrato un’impresa pari a quelli che si mettono in testa di pubblicare libri analoghi su Mina o Stanley Kubrick. Scrivere riguardo a chi non ama essere descritto. Che ne pensi?

Diciamo che è stata una bella sfida. Una sfida duplice perché, mentre buttavo giù le prime bozze, ho anche provato a contattare l’entourage di Steffi in America (la Graf vive a Las Vegas assieme al suo celebre marito Andre Agassi. Ndr). Avevo delle domande da porle che erano alla base del mio progetto e allora mi sono fatta avanti scrivendo alla sua Fondazione. Niente da fare, lei risponde a tutti allo stesso modo: «Grazie, ma non sono interessata a libri che riguardano la mia vita». Così, per creare un contesto, sono tornata ad immergermi nelle mie ricerche storiche. E ho letto di tutto, soprattutto stampa estera e interviste di chi l’aveva sfidata su di un campo da tennis.

Cosa ne pensi dello storytelling? In Steffi Graf – Passione e perfezione, inevitabilmente, se ne trova traccia eloquente…

Mettiamola così: a me lo storytelling piace finché non varca i confini della fantasia totale. Finché non diventa fiction pura. Io, come dici tu, ne faccio uso in questo libro, ma più in ambito di verosimiglianza. Se so che Steffi, da piccola, giocava a tennis nel seminterrato di casa sua, ecco, magari una pagina su questo tema la scrivo senza farmi troppi problemi.

Ma l’aneddoto incredibile della Graf che va a sentire dal vivo Bruce Springsteen a Brema mentre era impegnata in un torneo ad Amburgo è vero o no? Nel libro ne parli esattamente a pag. 104…

No, quella è stata una mia libertà poetica ispirata dal fatto che le due date coincidessero (Stefi Graf stava giocando la Citizen Cup ad Amburgo quando Bruce Springsteen e la E Street Band suonarono nello stadio del Werder Brema la notte del 30 luglio 1988. Ndr) e che lei, in alcune interviste, non abbia mai fatto mistero della sua adorazione per l’autore di Born to Run e The River. E poi le piaceva ballare! (ride)

Ballare al buio. Dancing in the dark in questo caso.

Sai, la Graf viveva, come tutte le sue colleghe, la solitudine della tennista (quella solitudine fatta di alberghi e match a ritmo continuo), eppure non era una tennis-dipendente. Anche da atleta non ha mai disdegnato una mostra d’arte fotografica. Da lì la mia idea di immaginarmela sempre più umana.

A parte il suo annus mirabilis (il 1988 quando vinse il Golden Slam comprensivo dell’oro olimpico a Seul), quante altre volte la Graf ha dato l’impressione al mondo dello sport di avere a che fare con una tennista veramente “disumana”?

In maniera così potente e continuativa direi solo quella volta. Da lì nella mente di giornalisti e tifosi si è formata l’idea di una Steffi Graf sdoppiata: quella invincibile e spietata del ’88 e l’altra che, piano piano, andava mutando. Penso che le nuove avversarie della sua epoca (Gabriela Sabatini, Arantxa Sanchez, ovviamente la Seles) l’abbiano a loro volta trasformata nel suo approccio al gioco, allontanandola da quello standard di perfezione “disumana”. La passione per il tennis, invece, le è rimasta immutata per tutta la sua carriera. Anzi, forse si è addirittura acuita.

Difatti quando vince il suo ultimo Slam (il Roland Garros del 1999) avviene una circostanza strana, vero? 

Esatto. Quando riceve quel trofeo, sul campo centrale di Parigi, è letteralmente fuori di sé dalla gioia. Quasi come se fosse il suo primo Slam quando in realtà ne aveva già messi in bacheca altri ventuno! Sempre durante quel discorso in pubblico consola addirittura la sua avversaria, Martina Hingis, che nel corso del match non è che fosse stata proprio l’emblema della sportività…

Cos’era successo?

Era cambiato tutto nella sua testa. Il Roland Garros di fine secolo fu la vera antitesi della Graf diciottenne. Intendo quando demoliva la Zvereva 6-0 6-0, in appena 32 minuti, sempre a Parigi, ma nel 1988.

Secondo te è vero l’assioma che, nelle giornate ok, Monica Seles demoliva le avversarie con la sua aggressività fisica mentre Steffi Graf ti demoliva il cervello e basta?

Beh, nel 1990/1991, al massimo della loro rivalità, la sensazione era appunto quella. Steffi, quando conosce Monica, capisce di avere di fronte a sé una forza della natura. Una che letteralmente grugnisce quando manda la pallina al di là della rete! Quindi il suo stile introverso, freddo, “tedesco” può esserle molto utile in quegli scontri memorabili. Inutile snaturarsi. Inutile mettere il match sullo stesso piano della sua nemesi.

So perfettamente che siamo nel campo del “what if” fumettaro, ma cosa ne sarebbe stato del tennis femminile anni ’90 senza l’insano gesto di Parche e dei relativi problemi psicologici che la Seles si sarebbe portata dietro fino al ritiro?

Magari, senza la pagina nera di Amburgo ’93, la rivalità Graf vs Seles si sarebbe semplicemente evoluta. Ok, Monica era ancora molto giovane al momento del suo ferimento (neanche ventenne. Ndr), ma avrebbe avuto senso puntare tutto sulla forza fisica per il resto degli anni ’90? Non lo sapremo mai, ma che grandi sfide ci siamo comunque persi… (sospira) 

Il tennis femminile è calato dall’uscita di scena della Graf e la successiva “mascolinizzazione” di tale disciplina?

No, il tennis femminile è bello anche nel 2021 e non così Williams-dipendente come si vorrebbe far credere. Magari manca il dualismo decennale mediatico – quella cosa che i maschi hanno vedendo giocare Federer e Nadal – ma ci sono comunque dei nomi interessanti là fuori. L’atletismo d’altronde l’ha inventato Martina Navratilova a metà anni ’70 e non è che questo sport oggi sia diventato più banale solo perché è pieno di sportive allenate ai massimi livelli. Si tratta solo di progresso.

Ultima domanda: il tuo incontro preferito della Graf?

Domanda difficilissima. Tra tutti ti dico la sua vittoria in tre set contro la stessa Navratilova nella finale del Roland Garros ’87. Quello che passerà agli annali come il suo primo Slam.

Perché proprio quel match?

Perché eravamo ancora nel 1987 e forse qualcuno tende a scordarselo. Perché arriva giusto un pelo prima del suo 1988 stratosferico. Perché dopo, per Steffi, sarà tutta un’altra storia. 

 

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