Stefano Bonilli, gramsciano della tavola

11 Agosto 2014 di Fabrizio Provera

Agosto si ’è portato via, in modo terribilmente improvviso e inatteso, Stefano Bonilli. Un nome e una persona che diranno molto a molti, nonostante il personaggio fosse poco incline alle (auto)celebrazioni: Bonilli fu infatti il geniale fondatore del Gambero Rosso, dapprima supplemento goloso del Manifesto (prima anomalia…) nel 1986 – dove si discettava di foie gras, aragoste, Champagne e vini di Borgogna mentre certi scandalizzati lettori erano ancora convinti della dittatura del proletariato – e solo in seguito gruppo editoriale a sè stante, da cui ‘germinarono’ il celebre mensile, la guida ai vini – potentissimo moltiplicatore di fatturati per millanta aziende vinicoole, negli anni – e la guida ai ristoranti. La grandeur culminò con la creazione della Città del Gusto a Roma, poi le polemiche su bilanci non propriamente floridi e infine, nel 2008, il clamoroso licenziamento: Stefano Bonilli venne estromesso dal gruppo che aveva creato.

Con Bonilli, stroncato da un infarto a 69 anni nella sua casa di Roma, l’’Italia e la critica enogastronomica perdono probabilmente la figura più insigne dopo Gino Veronelli (morto nel 2004) e Gianni Brera, di cui pochi-  colpevolmente – dimenticano e tralasciano di leggere le deliziose cronache della tavola, dimensione etico-spaziale dove il Principe della Zolla si trovava più a suo agio persino della tribuna stampa dello stato ‘Giuseppe Meazza’, che era ‘il folber’. Bonilli mise insieme, da capitano avveduto e lungimirante, un team di fuoriclasse: Daniele Cernilli, Marco Sabellico, lo sfolgorante Andrea Petrini, l’’allora infante Marco Bolasco, Laura Mantovano… Ancora oggi, parliamo dell’elite del giornalismo enogastronomico.

   Da cronista di estrazione politica vezzosamente e orgogliosamente di parte, la parte del glorioso Manifesto di Luigi Pintor, Rossana Rossanda e Valentino Parlato, Bonilli applicò alla gastronomia – forse inconsapevolmente – una sorta di gramscismo culturale. Gramsci elabora infatti un disegno volto alla realizzazione non violenta del cambiamento politico, perché crede nella possibilità che la cultura trasformi la politica, indipendentemente dall’’uso immediatamente ideologico di essa. La lettura tradizionale della filosofia di Gramsci lo vede come il teorico dell’’egemonia, cioè della monopolizzazione dei centri del potere culturale al fine di conquistare il potere politico, con l’’invasione pacifica di scuole, università, stampa, letteratura, critica letteraria. In questo senso è curioso – e scoraggiante, a posteriori, per la cultura non progressista: liberale, cattolica, nazionale – notare come temi propriamente e schiettamente tutt’’altro che progressisti, come terra, tradizione, territorio, conservazione della biodiversità, diventino dagli anni Settanta in poi egemonia di chi ne intravide, prima di altri, il dirompente potenziale del cibo e della sua esegesi. Perché prima di Bonilli ci furono Carlin Petrini e Silvio Barbero, che dai banchi del Consiglio comunale di Bra, dove negli anni Settanta siedevano sui banchi del Partito Socialista di Unità Proletaria (archeologia della Prima Repubblica…), si lanciarono verso la creazione di Arcigola prima e Slow Food poi. Conquistando, con Carlo Petrini, la copertina del Time come uomo tra i più influenti del pianeta. Non male, come tragitto.

   Oggi, spiace dirlo per i colleghi che sono impegnati a rinverdirne i fasti, il Gambero Rosso che trovate in edicola è un lontanissimo parente di quello targato Bonilli. I Bonilli boys nel frattempo si sono sparpagliati, tra la stampa e in rete, dove il Direttore continuò la sua opera, prima sul Papero Giallo e poi sulla Gazzetta Gastronomica. Benché fosse mentalmente molto più giovane di parecchi ventenni, crediamo che la funzione precipua di Bonilli sia stata quella di rappresentate la coscienza storica dell’’alta cucina italiana: non c’’è cultura gastronomica degna di tal nome senza le letture (e le riletture) delle storie di Peppino e Mirella Cantarelli da Samboseto, di Gualtiero Marchesi, di Ezio Santin, del Trigabolo di Argenta e del sommo Fulvio Pierangelini – ossia le colonne portanti della cucina italiana moderna – vergate dalla penna di Bonilli. Che era insuperabile, quando fondeva passione e nostalgia nel ricordare l’’epopea di Guido Alciati, di Pina Bellini, di Gianluigi Morini, Heinz Beck e di tutti i califfi dei fornelli. La morte di Bonilli rischia di interrompere la realizzazione di un libro-antologia su questa lussureggiante epopea, progetto cui il Direttore lavorava da anni. E che forse, oggi, i suoi eredi o presunti tali dovrebbero avere il coraggio di prendere in mano e concludere. Perché non c’’è futuro senza passato, non c’’è prospettiva di evoluzione senza tradizione. E se ce l’’ha insegnato un notista politico del Manifesto, potete crederci tutti. Nel frattempo lo smisurato archivio del web potrà, seppur solo parzialmente, attenuare il dolore della morte di Stefano Bonilli. Che basterà ritrovare lì, tra quelle righe, specie quelle più intrise di umanità. Dove si parla del cuoco con l’’obbiettivo di cercare l’’Uomo. Come ci ’hanno insegnato i nostri Maestri, Gino Veronelli e Giuangrerafucarlo. A buon rivederci, Direttore.

(la foto di Stefano Bonilli è tratta dal sito www.cucchiaio.it)

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