Nero puma (di Lambrate), intervista a Fabio Treves
12 Novembre 2014
di Glezos
Tra le tante collaborazioni artistiche che hai avuto con grandi nomi, quale ti è rimasta dentro più di tutte? Quella celeberrima con Frank Zappa?
C’è anche episodio che ti lega a Billie Holiday.
L’anno purtroppo non lo ricordo con esattezza, ma doveva essere il 1956 o il 1957. Era uno degli ultimi tour di Billie Holiday, in quell’occasione accompagnata da Gerry Mulligan al sax baritono, Chet Baker alla tromba e Stan Getz al sax tenore. Me li ricordo bene perché li incontrai: si sapeva che facevano tutti uso di droghe, e mio padre (che era un neuropsichiatra, oltre che un appassionato di jazz) riuscì a farli ricoverare per un pomeriggio in una clinica privata per evitare problemi con la giustizia. Io ero lì, ero solo un bambino, ma osservare da vicino questa Madonna dalla pelle creola è stata una visione che mi è riverberata nella memoria per anni. Mi dispiace solo di non ricordarmi di altri personaggi leggendari che ho incontrato nel corso della mia infanzia. Altri però li ricordo bene, ad esempio al famoso festival dell’ Isola di Wight nel 1970, che ero andato a vedere con Eugenio Finardi, Alberto Camerini e altri del giro milanese. Quando lì mi sono imbattuto in Jim Morrison non l’ho nemmeno riconosciuto!
Zucchero, Pino Daniele, Alex Britti e altri: col passare del tempo nella musica pop italiana sono emerse qua e là venature blues. Cosa ne dici?
Hai sempre autoprodotto i tuoi dischi, ma è difficile pensare che l’industria discografica non ti abbia corteggiato.
L’hanno fatto e una volta sono stato lì lì per firmare con un’etichetta. Ma anche in quel caso eravamo alle solite: il problema principale era la loro insistenza nel farmi fare cose in italiano e io non ci ho mai sentito. Gli unici che sono riusciti a fare un brano canonicamente blues nella nostra lingua sono stati Fabrizio De André con ‘Quello che non ho’ e il mio amico Enzo Jannacci in ‘Quelli che’, che è un grande esempio di talking blues tricolore. Quando mi chiedono perché non faccio pezzi in italiano rispondo: “Perché non te li fai tu?”.
Mi viene in mente anche ‘Statale 17’ dei Nomadi di Augusto Daolio, l’unico blues in 17 battute – e non 12 – che abbia mai sentito, da cui il titolo.
Vero, ricordo benissimo. Ma qui e là il pezzo blues l’hanno tentato in tanti. È inevitabile, perché è una musica che racconta l’incontro, la passione, l’abbandono, la cosa che ti manca, il sogno, la fantasia, il viaggio. Spesso è la stessa armonica che te lo racconta.
Guardando indietro, senti di dover ringraziare qualcuno?
Innanzitutto mia moglie Susanna, che per anni è stata la figura di riferimento di tutta la mia vita musicale. Poi non posso non rivolgere un grazie affettuoso al mio amico Renzo Arbore, che per primo ha creduto in me: molta della mia popolarità la devo alle partecipazioni a programmi televisivi di successo come ‘L’Altra Domenica’, ‘Quelli della notte’ e ‘DOC’. Infine la mia cocciutaggine e il mio pubblico. E il fatto che in 40 anni i miei valori e le mie idee non sono cambiate, anzi si sono rafforzate. Il “la” me l’ha sicuramente dato la passione per il blues, ma anche l’avere suonato in posti che definire impensabili o assurdi è poco. Ci siamo esibiti in un manicomio criminale, negli ospizi, un sacco di volte nelle carceri, scuole, università e fabbriche occupate. Sono contento di avere vincolato il nome della Treves Blues Band a iniziative e momenti che la gente ricorda ancora. Perché alla fine il blues è uno stile di vita e non quanti dischi vendi: è anche impegno, solidarietà e presenza sul territorio.
Tutto da assoluto indipendente.
Beh, quando vado in giro a distribuire i volantini e le cartoline dei concerti e ad attaccare i manifesti qualcuno mi guarda come fossi l’ultimo dei mohicani. Ma cosa dovrebbe fare un indipendente? Non c’è niente di anacronistico nel promuovere in prima persona la propria attività di musicista: lo facevano da Cab Calloway ai Blues Brothers, non solo nei film. Lo faccio anch’io, perché essere operativi e militanti sul territorio non è mica una cosa di cui vergognarsi, anzi, è un fattore che dà lustro. Mi sono realizzato io i dischi, me li sono prodotti, promossi e venduti. Sono un indipendente e come dice il mio motto “Chi fa da sé fa per Treves”. Sono contento se si scrive e si parla di noi, ma se questo non succede non è che io cada in depressione. A 65 anni compiuti sono l’unico musicista – almeno nella mia città – che è partito col blues ed è arrivato alla follia di chiudere il tour dei 40 anni di carriera all’Auditorium di Milano, un luogo preposto per la musica classica, colta e di qualità. E che sabato 29 novembre diventerà una sorta di tempio del blues, con i tanti amici che parteciperanno. Oggi per me è divertente ricordare quanti sberleffi e sorrisini ironici, quante cose poco gratificanti dissero fin dai nostri esordi: che eravamo fuori tempo, che l’avventura della Treves Blues Band sarebbe durata pochi mesi. Sono qui a festeggiare il traguardo dei 40 anni di attività che per il blues in Italia sono un qualcosa di sorprendente, dico questo assolutamente senza presunzione. Se fossimo gente spinta dalle radio commerciali e che vedi tutti i giorni alla tv, se fossimo amici dell’amico legato al carrozzone di questo o di quell’altro, be’, sarebbe un conto. Ma non essendo il nostro caso, mi dico che alla fin fine non è andata poi così male.
(Intervista di Glezos, in esclusiva per Indiscreto)
Treves Blues Band – 40 anni di blues! plus special guests
sabato 29 novembre 2014 – ore 21:00
Auditorium di Milano, Largo Mahler
prevendita on line: www.vivaticket.it
info: www.laverdi.org
Commenti Recenti