L’Italia di Boniperti

6 Luglio 2022 di Stefano Olivari

Il Giampiero Boniperti meno ricordato è di sicuro il Boniperti giocatore. Non perché fosse uno sconosciuto, anzi è stato l’unico calciatore italiano di livello internazionale degli anni Cinquanta, e nemmeno perché sia più citato come dirigente della Juventus. È stato lui per primo a tenere basso quel Boniperti e lo ha fatto fin da subito dopo il ritiro avvenuto nel 1961, a 33 anni. È questo il contesto in cui ha preso forma l’interessantissimo Boniperti: il calcio è una cosa meravigliosa, una raccolta ragionata di interviste a Boniperti fatte da Mario Pennacchia, da poco uscita per Edizioni InContropiede e da noi divorata in una notte.

Il libro, curato da Marco De Polignol, è basato su pensieri espressi da Boniperti nel 1966, in una fase particolare della sua vita. Ex calciatore non ancora quarantenne, fresco padre di tre figli, con un futuro da dirigente già scritto ma non ancora concreto al di là dell’ufficio e della giacca, Boniperti in queste interviste pubblicate a suo tempo sul Corriere dello Sport si lascia andare e racconta con passione il calcio degli anni Quaranta e Cinquanta, ma soprattutto il modo di viverlo da parte di chi lo sognava senza poterlo guardare. Una delle parti più belle è infatti quando racconta di essere sempre stato un tifoso della Juventus, ma di essere stato ingaggiato dalla Juventus a 18 anni, nel 1946, senza averne mai visto una partita.

Pennacchia in vita sua ha scritto tanto della Juventus, ed in particolare del rapporto fra gli Agnelli e la Juventus, ma queste confidenze di Boniperti sono inarrivabili e con meno filtri rispetto all’autobiografia che Boniperti avrebbe fatto uscire quasi a fine corsa. Il tono dell’ex campione è al tempo stesso mitizzante e smitizzante, a partire dal racconto della sua crescita, anche calcistica, avvenuta in collegio. Altro che il calcio di strada di cui si straparla (per non avere battuto la Macedonia), nessuno dei più grandi calciatori italiani è mai arrivato dalla strada e Boniperti addirittura era di una classe sociale superiore rispetto a quella del calciatore medio di quei tempi.

Pieni di rimpianti e anche di rabbia i racconti dei due Mondiali, 1950 e 1954, disputati, non inediti ma sempre appassionanti quelli sul suo rapporto con i colleghi del Grande Torino, in particolare con quelli del trio Nizza (Bacigalupo, Rigamonti e Martelli) e Valentino Mazzola (il racconto di un suo salvataggio sulla linea, visto dal vivo, sembra uscito da Holly e Benji), istruttivi quelli di un calcio pre-televisivo e poi paleo-televisivo visto dal campo. Dove le trasferte, anche per la Juventus degli Agnelli, significavano prima di tutto resistere all’intimidazione fisica. Ci è piaciuto come Boniperti, da attaccante più vittima che carnefice (anche se molti colpi, magari non sul campo del Padova, li restituiva), ne abbia parlato come di una cosa normale, in fondo accettabile, che divideva quelli veri da quelli che dovevano cambiare sport.

Ma al di là del contenuto, siamo stati travolti dallo stile che definire d’altri tempi sarebbe riduttivo anche se sì, in effetti è proprio d’altri tempi. Lo stile del giornalista laziale, ma anche quello dell’ex calciatore piemontese, che ci hanno catapultato in un’epoca in cui il calcio non era migliore e nemmeno gli italiani erano migliori. Un’epoca in cui c’erano meno cose, a cui logicamente si dava più importanza. Un merito di Boniperti, scomparso un anno fa, quello di avere attraversato i decenni mantenendo una coerenza di fondo ed un decoro che non è soltanto forma. Vibranti le pagine sulla sua partecipazione ad Inghilterra-Resto d’Europa, più caldi i complimenti a John HansenCharles di quelli a Sivori (quasi mai citato), tutto da riscoprire quel patriottismo senza slogan che al di là della Juventus era una delle cose che lo faceva entrare in sintonia con Agnelli. Libro antico e modernissimo, non soltanto per juventini.

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