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Le regole che fanno vivere Patriots e Spurs

Simone Basso 11/02/2015

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Quando, due domeniche orsono, a venti secondi dalla fine del Super Bowl, Malcom Butler ha intercettato quel pallone sciagurato di Russell Wilson, mai quanto la chiamata di Pete Carroll, è come se si fosse compiuta una giustizia divina. Il fantasma di David Tyree, materializzatosi con la presa fortunata di Jermaine Kearse qualche down prima, è stato sconfitto e i New England Patriots sono entrati definitivamente nella leggenda dello sport americano. Particolare curioso ma non troppo, i Pats suggellano una dinastia sei mesi e mezzo dopo la quinta sinfonia degli Spurs, in un’ideale corsa parallela di franchigie che hanno riscritto le regole (virtuose) del successo.

Organizzazioni meticolose, capaci di perfezionare ogni aspetto del mosaico che caratterizza una squadra vincente: dallo scouting alla tattica, i dettagli solcano la differenza – minima, quasi impercettibile – tra il trionfo e il disastro. Le sintonie sono evidenti, a cominciare dagli allenatori guru, Belichick e Popovich, gli artefici del sistema. Due factotum (che però delegano), fondamentalisti dello studio (e dello sviluppo) tecnico, camaleontici nella tattica e negli adeguamenti alla stessa. Allenatori che non hanno implementato uno stile di gioco monolitico, a mo’ di pattern ideologico, bensì si sono adattati al personale che, nei lustri, il management gli ha messo a disposizione. Bill e Gregg impongono le loro idee a dispetto di un’immagine pubblica (e sostanziale) tutt’altro che accomodante. Rappresentata benissimo dalla felpa consunta di uno e dalle interviste monosillabiche dell’altro. Amati e detestati per le scelte dirompenti, ruvide.

Entrambi, nella costruzione di una filosofia collettiva, dove il luogo di allenamento sta a metà fra un’università di ricerca avanzata e un camp militare, sono stati favoriti dall’essersi imbattuti in Duncan e Brady. I campionissimi che hanno permesso non solo le parate, ma la reputazione intonsa delle portaerei.
Tanto diversi nella percezione pubblica, Tim una specie di Buster Keaton, Tom il fidanzato d’America, così simili nell’etica del lavoro: ossessiva, martellante, cartesiana. Un’abnegazione, un esempio, che costringe il gruppo intero ad adeguarsi. Significativo il fatto che le carriere dei due, prossimi anche nella sobrietà stilistica, abbiano avuto un prologo opposto. Duncan fu una delle prime scelte più attese di sempre (e a ragione), Brady, umiliato, ignorato, lo chiamarono al sesto giro, numero centonovantanove.

Il resto della storia è costituito da una sequenza di magate dei front office: l’ultimissima pesca improbabile in casa Pats è proprio Butler, l’ennesimo undrafted preso dal marciapiede; San Antonio ha chiamato Manu Ginobili al cinquantasette, Tony Parker al ventotto, Kawhi Leonard al quindici e via così… Il progetto funziona persino quando si inseriscono i deviati: Corey Dillon, Stephen Jackson, Randy Moss, etc. Le vittorie degli Spurs e dei Patriots vanno oltre gli anelli e gli albi d’oro: idealizzano un metodo che ha fatto scuola, ormai studiato e replicato dalla concorrenza. Al di là di ogni disamina dell’impatto (positivo) delle regole di quel mondo, sono l’hard o il soft cap (e le mille variabili regolamentate) a permettere trionfi in serie a realtà di media grandezza economica, sarebbe bello che in Europa si iniziasse a prendere qualche appunto. Parliamo di un’etica calvinista del denaro, perchè, con l’eccezione di poche realtà, nel vecchio continente lo sport sembra essersi trasformato in un Monopoli di dubbio gusto, che ricicla denaro, persone e illusioni.

“Se non si rischiasse mai nella vita, Michelangelo avrebbe dipinto il pavimento della Cappella Sistina.”
(Neil Simon)

Simone Basso, in esclusiva per Indiscreto

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