La storia del punk, impossibile liberarsene

9 Gennaio 2018 di Glezos

Conosco Stefano Gilardino da una ventina d’anni, quindi da quello che dovrebbe essere un sacco di tempo. Che però sacco non è, o almeno non lo è in termini di pionerismo punk, dato che ci siamo conosciuti non nel 1977 ma ufficialmente fuori tempo massimo. Quei pochi anni di differenza tra di noi stabiliscono coordinate diverse, che avevano portato l’uno (Stefano) sulla strada dell’altro (io) a fine anni Novanta in occasione delle prime ristampe su vinile e cd di alcune registrazioni di gruppi punk italiani del periodo 1978-1981, tra i quali i miei (Gags e Schwarz Of Galiorka). Stefano scriveva su alcune riviste musicali – lo fa ancora-, e da superappassionato li aveva accolti con fin troppo entusiasmo, dedicandomi recensioni e interviste credo ancora oggi utili per inquadrare il primo punk italiano nel contesto storico del momento. Il resto è andato da sé fino a oggi, con i messaggi scambiati in estate sui progressi della stesura del suo imperdibile ‘La storia del punk’ (350 pagine, editore Hoepli) alla presentazione del libro insieme lo scorso fine ottobre con la nostra Pistols Divinità Glen Matlock, con le uscite sue e mie nei prossimi mesi sull’argomento: un nuovo album su vinile di materiale inedito d’epoca, un altro progetto editoriale e altre cose ancora. Per finire – o cominciare – con una chiacchierata dove i ruoli si ribaltano con mio grande piacere rispetto ai nostri incontri di tutti questi anni.

Glezos: Di tomi sul punk ne sono usciti fin troppi. Perché il tuo libro?

Stefano Gilardino: Innanzitutto perché nessuno aveva mai analizzato 40 anni di storia – che poi sono quelli del punk fino ai giorni nostri – in maniera così esaustiva ma al tempo stesso non enciclopedica. Nel senso che non era mia intenzione fare una sorta di Wikipedia del Punk, quanto piuttosto raccontare delle belle storie e raccontarle attraverso l’evoluzione di un genere musicale che amo da quattro decenni. Ci sono molti libri sull’argomento che hanno analizzato particolari periodi storici o scene ben precise e che sono entrati molto più nel dettaglio, cosa che non potevo fare altrimenti mi sarei dilungato per 4000 pagine.

G: A tuo avviso com’è percepito il punk in Italia oggi?

SG: Meglio di una volta. Al tempo stesso mi spiace che venga ancora preso per stereotipi: la cresta, il chiodo, gli anfibi, la musica cacofonica a tre accordi, il non essere capaci di suonare. In tutti i luoghi comuni ci sarà anche un fondo di verità, che però in questo caso è duro a morire, perchè nella realtà il punk si è dimostrato un genere estremamente variegato dal punto di vista musicale e politico, oltre che longevo: non dimentichamoci che nel 1977 i media gli davano sei mesi di vita liquidandolo come una stupida moda londinese. Credo che oggi la percezione sia migliore anche perché è diventato – ahinoi – classic rock, dato che siamo tutti più vecchi. Eppure qualche sopracciglio si alza ancora, del tipo: “Come, ma ascolti ancora quella roba lì?”. E mi piacerebbe che il mio libro potesse dare un piccolo aiuto a far capire che la profondità e la grande longevità di questo genere sono meritati, e che dietro le spille da balia c’è un mondo intero.

G: Chi è punk una volta lo è per sempre?

SG: Fondamentalmente sì, per lo meno se l’innamoramento è sincero e profondo. C’è un bel po’ di gente che magari ha militato per due settimane in una punk band con tanto di cresta e pantaloni stracciati per poi rinnegare tutto. Ma se è stata l’attitudine a toccarti nel profondo, poi ti resta tutta la vita, e in qualche modo non credo sia possibile liberarsene. Mi fai venire in mente la famosa frase-simbolo dei neri, “Puoi portare via un uomo dal ghetto ma non il ghetto da un uomo”, e qui è simile: se hai dentro quella cosa magari puoi anche diventare un personaggio famoso, ma ti rimarrà sempre dentro.

G: Ieri mi dicevi che i dischi punk che porteresti con te sulla proverbiale isola deserta sono due, apparentemente ovvii: ‘Never Mind The Bollocks’ dei Pistols per il punk inglese e il primo dei Ramones per quello americano. Confermi?

SG: Sì, ma intendevo dire che a mio parere quei due album identificano tuttoggi il punk alle orecchie di qualcuno che lo ascolta per la prima volta, fatto salvo che di dischi fondamentali nel genere ce ne sarebbero centinaia. Quindi sì, confermo.

G: Qual è stato l’episodio più esaltante e/o deludente legato alla lavorazione del libro?

SG: Forse la cosa più deludente è stata riascoltare vecchi dischi che per me avevano un valore affettivo molto alto, e accorgermi che oggi non li ascolterei nemmeno per sbaglio. E’ stato un po’ come reincontrare un vecchio amico dopo tanti anni e scoprire che non hai più nulla in comune con lui, e che il passato è passato male. Dall’altro lato la cosa esaltante è stata reimmergermi in quelli che sono stati 40 anni della mia vita. E in particolare ritrovare un quadernone fitto di appunti miei e di mio fratello nel periodo fine anni Settanta-inizio Ottanta sulle band e i dischi che idolatravamo in quei giorni: mi piace pensare che fosse un po’ un segno del destino che annunciava cos’avrei fatto molti anni dopo, ovvero questo libro che in un certo senso avevo iniziato da bambino. La cosa buffa è che questo quadernone di noi piccoli punk fans verrà stampato in copia anastatica identica all’originale e pubblicato nei prossimi mesi da Goodfellas, con allegato un cd comprendente una ventina di brani di alcune delle bands che compaiono nel quaderno. Con possibilmente degli inediti, ad esempio di Trancefusion (gruppo del primo punk milanese poi trasferitosi a Roma, che inizialmente aveva avuto come pigmalioni i Krisma di Maurizio Arcieri e Christina Moser, nda), Raff (band romana simil-Motorhead), Wops di Francesco Adinolfi (celebre giornalista-conduttore radiofonico al Manifesto e in RAI, che all’epoca curava una rubrica punk sul presto defunto quindicinale ‘Nuovo Sound’, nda), Sorella Maldestra da un demo inedito, più qualche importante contributo di Oderso Rubini e della sua Italian Records come ad esempio Confusional Quartet e un inedito registrato al famoso festival Bologna Rock del 1979.

G: In quale punk band avresti voluto militare e in quale ruolo?

SG: Avrei voluto fare parte dei Clash nel ruolo di Mick Jones, visto che Joe Strummer ci ha lasciati un po’ troppo presto e Mick è ancora vivo.

G: Dopo la fine di ogni carica eversiva nel rock e l’appiattimento del post-alternative, c’è in giro qualcosa di imparentato anche blandamente con i moventi del punk delle origini?

SG: Credo che ci siano sempre ottimi motivi per riaffermare tutto quello che ha mosso il punk nel 1976/77. Anzi, forse questo è uno dei momenti storici in cui ci sarebbero eccellenti motivazioni perché venisse fuori un qualcosa di simile al punk e alla sua carica eversiva. E mi spiace constatare che questo qualcosa non c’è, forse perché un certo tipo di rock e di musica politica hanno perso la loro funzione sociale, nonostante si sia parlato in passato ad esempio del rave e di certa musica elettronica come possibile sbocco di alcune istanze del punk. Forse sono io a non cogliere quello che colgono le orecchie e l’immaginazione di un ventenne oggi, ma non vedo all’orizzonte quello che vedevo in quegli anni. Credo che manchino le componenti di quello che ti faceva dire che andare avanti e cambiare le cose intorno a te era possibile. Non c’è più quello che faceva sognare i ragazzi come me, e che ci faceva battere il cuore.

G: Il punk ti ha fatto sentire meglio nella vita?

SG: Mi ha fatto sentire molto meglio, e anche diverso. E questa diversità me l’ha fatta apprezzare: non sono mai stato il tipico caso da “Oddio, sono diverso, e adesso come faccio con gli altri?”, tutt’altro. Sono speciale, mi dicevo, magari non migliore rispetto agli altri ma sicuramente ho delle caratteristiche precise e differenti, e come tu sai bene è bello coltivare le diversità. E così è successo anche ai miei amici, perché chi si somiglia si piglia. Quindi il punk mi ha fatto sentire meglio, e ancora lo fa.

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