La morte della Salvarani

27 Ottobre 2021 di Stefano Olivari

Renzo Salvarani è morto qualche giorno fa, a 95 anni, lasciando grandi ricordi: per le donne, perdonate il sessismo, Salvarani erano le sue cucine, per gli uomini la Salvarani è stata una delle più grandi squadre di ciclismo di tutti i tempi. La squadra di Felice Gimondi, soprattutto, ma anche di Adorni, Motta, Pambianco e di corridori di culto come Dino Zandegù, senza dimenticare grandi stranieri come Altig e Godefroot. Con un direttore sportivo storico come Luciano Pezzi, alla base in seguito anche del fenomeno Pantani, ed il saluto finale dato da Marino Basso al Mondiale di Gap nel 1972, nell’ultima stagione sportiva della Salvarani.

Vittorie generali e di tappa a Giro, Tour e Vuelta, ma soprattutto vittorie imprenditoriali nell’Italia della ricostruzione, dove un falegname con l’intuizione giusta poteva diventare miliardario con il proprio lavoro e quello dei suoi operai. Senza grandi innovazioni tecnologiche, come ben spiegato anni fa per il tessile da Edoardo Nesi in Storia della mia gente, ma dando un mercato ad idee che già c’erano. Domanda di noi giovani, giovani almeno rispetto alla Salvarani: come è possibile che un’azienda solida come questa, anche ben posizionata sui mercati internazionali, non esista più?

La crisi dell’azienda di Parma iniziò proprio negli anni Settanta, più per problemi sindacali che per un vero e proprio calo della domanda. Verso la fine del decennio si andò addirittura, ma nell’Italia dell’epoca non era una rarità, verso la cogestione dell’azienda con comitati di fabbrica (chi se li ricorda?), sindacati e politica attivamente coinvolti. Una situazione insostenibile per quasi tutti, non solo per un’azienda a conduzione familiare, per quanto di grande successo. Su pressione dei politici e dei media furono nominati dirigenti adeguati a questa nuova era e, per farla breve, nel 1979 i Salvarani furono fatti fuori dopo aver venduto la maggioranza all’Industrialfin, una società costituita dall’Unione Industriali di Parma.

Poi nel 1981, qui davvero sull’orlo del fallimento, la Salvarani beneficiò della cosiddetta legge Prodi, nella sostanza l’amministrazione straordinaria, e tirò avanti. Negli anni Ottanta e Novanta, fra vari cambi di proprietà, le cose non sarebbero comunque mai andate come ai tempi d’oro di Renzo Salvarani e della sua famiglia anche se il marchio Salvarani era, e forse è ancora oggi, secondo soltanto a Scavolini come notorietà quando si parla di cucine. Nel 2011 la fine ed è incredibile che in un mondo dove il marchio è decisivo nessuno abbia mai pensato di sfruttarlo, se non per una linea di abbigliamento vintage messa in piedi fra l’altro da discendenti Salvarani.

Ma tornando al ciclismo, perché la Salvarani lo lasciò quando era ancora un’azienda di grande successo saldamente in mano alla famiglia? Perché Renzo Salvarani era sì la mente imprenditoriale del gruppo, ma il vero appassionato di sport era il fratello minore Luigi, che nel 1970 morì a 30 anni in un incidente stradale insieme alla moglie, lasciando quattro figli. Da lì iniziarono l’uscita dell’azienda da questo sport tanto amato, vicino alle origine contadine dei Salvarani, che avevano costruito una delle loro fabbriche proprio sui campi dove il padre si era spaccato la schiena, ed un decennio in cui fare l’imprenditore in Italia sarebbe stato molto difficile.

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