La FA Cup del Leicester City

Il cambio di status del club impegnato contro il Chelsea nella quinta finale di Coppa d'Inghilterra della sua storia non ha ancora cambiato la sua base di tifosi, che nella Premier League che conta è forse l'unica rimasta locale...

14 Maggio 2021 di Roberto Gotta

Un miracolo, passare da sfigati a conformisti, riuscendo però a restare sufficientemente in retrovia da attirare i tifosi neutrali. È successo al Leicester City, impegnato nel fine settimana a Wembley per la finale di Coppa d’Inghilterra. Contro il Chelsea, emblema dell’impoverimento gerarchico del calcio inglese: sedicesima finale in assoluto, dodicesima da quando con la trasformazione della First Division in Premier League già in semifinale hanno cominciato ad arrivare poco alla volta quasi solo squadre della massima serie, e tra queste i Blues sono stati i più assidui assieme all’Arsenal.

Per il Leicester City è invece la quinta, la prima però dal 1969, e il fatto che non sia mai arrivata una vittoria racconta molto della percezione della squadra negli ultimi decenni. Se è vero che altre squadre hanno perso molte più finali (otto, Everton e Manchester United), è anche vero che nessuna le ha perse tutte. E ogni volta però c’era una scusa plausibile data dalla consistenza delle avversarie: nel 1949 il Wolverhampton era appena partito alla conquista del proprio periodo migliore, nel 1961 il Tottenham era forse il più forte Tottenham della storia, nel 1963 il Manchester United, ricostruito dopo la tragedia di Monaco, stava innestando la seconda ondata dei Busby Babes che avrebbero poi vinto campionati e Coppa dei Campioni.

Vero che nel 1964 arrivò la vittoria della Coppa di Lega, all’epoca peraltro snobbata dai grandi club, ma nel 1969, per chiudere il cerchio, il Manchester City era nel pieno di un periodo comprendente vittoria del campionato, delle due coppe nazionali e della Coppa delle Coppe mentre il Leicester City stava lottando per salvarsi (la finale si giocò il 26 aprile, quasi tre settimane prima della fine del campionato): quel giorno, a Wembley, le/i Foxes giocarono molto meglio del previsto, tanto che come miglior giocatore della partita venne premiato l’attaccante Allan Clarke, ma non riuscirono a rimontare il gol di Neil Young, segnato al 24°, e perdendo poi il 17 maggio contro il Manchester United, nell’ultima partita di Matt Busby come allenatore dei Red Devils, precipitarono in Seconda Divisione per la prima volta dal 1957. Zero su quattro e ora 52 anni prima di potersi giocare la quinta finale, diventando nel frattempo un club stabilmente instabile: mai sceso in terza divisione, mai campione fino alla stupefacente stagione 2015-16, solo una volta in testa alla classifica in maniera provvisoria, nell’ottobre del 2000 sotto la gestione di Peter Taylor.

L’anonimato, la mediocrità, favorite anche dal ruolo incerto della città stessa, troppo sottovalutato durante l’anno del titolo, quando la stragrande maggioranza dei media nostrani si limitò al ritornello ‘dilly ding dilly dong’ di Claudio Ranieri e agli aneddoti su Jamie Vardy, dimenticando – forse perché bisognava studiare – di collocare il City e la città nel contesto che avrebbe reso loro onore non fatuo. A sud di Leicester, circa 350.000 abitanti, si ritiene comunemente che inizi il Sud inglese, terra che lo stereotipo vuole popolata di rammolliti, mentre a nord non… inizia il Nord dei duri e puri, ed è poi anche per questo che siamo nelle (East) Midlands, cuscinetto tra le due fasce di stereotipo e dunque terra indefinita al punto da essere caratterizzata da questa caratteristica. Non ha poi aiutato l’estrema varietà etnica della città, in cui si parlano circa 70 tra lingue e dialetti e il 20% dei residenti predilige il gujarati, il punjabi e il somalo all’inglese.

In più, Leicester per motivi di.. metrica si è trovata spesso infilata in canti rivolti a tutt’altro club, diventando quindi una specie di interiezione: tutti i canti modellati sulle note di Land of Hope and Glory si chiudono con ‘and Leicester!’, anche se a chi li esegue non è mai fregato nulla né della città né della squadra. Ecco allora ‘We hate Nottingham Forest, we hate Liverpool, too. And Leicester!’ oppure ‘We all follow the Chelsea/over land and sea… and Leicester!’. Anche se c’è una spiegazione curiosa, nell’ultimo caso: nel corso di una trasferta degli anni Settanta, infatti, un pullman di tifosi dei Blues ad uno svincolo vide un cartello che indicava ‘The North and Leicester’, che è un po’ come se da noi trovassimo un ‘Tutte le direzioni e Bergamo’. Aggiungendo il fatto che in quel periodo tra gli hooligan delle due squadre c’erano rapporti tesi – che hooligan sarebbero stati, sennò? – ecco l’ironico ‘and Leicester!’ che al tempo stesso dipingeva e scherniva la mediocre unicità di club e squadra. Anche se, come ha scritto Tim Marshall in un divertente libro sui canti da stadio, in realtà nessuno ha mai realmente odiato il Leicester City, se non forse i rivali delle città vicine, magari Coventry, Derby, Nottingham. E a proposito di Nottingham, passò purtroppo inosservato, la sera di Chelsea-Tottenham Hotspur che diede il titolo alle/i Foxes, il coro che si poté ascoltare in diretta televisiva da un pub locale, rivolto a un tizio che per motivi difficili da spiegare si era presentato con la maglia del Forest: ‘you’re not famous anymore’ gli cantarono gli altri avventori, a ricordargli che i tempi del titolo inglese e delle due Coppe dei Campioni erano passati da un pezzo.

Eppure… eppure da quel giorno di maggio del 2016 del Leicester City non si è più parlato con toni semiseri. Una discreta Champions League, le difficoltà e il frettoloso addio a Ranieri, gli allenatori temporanei successivi, Claude Puel e i suoi problemi di spogliatoio, la tragedia della morte del proprietario Vichai Srivaddhanaprabha il 27 ottobre 2018, Brendan Rodgers e il suo approccio scientifico e passionale al tempo stesso, buttato con troppa foga autoreferenziale al Liverpool, rifinito al Celtic e rimesso in campo, con qualche smussatura, negli ultimi due anni. La firma di Rodgers, nel febbraio del 2019, fu notizia importante: non solo per la risonanza del Celtic, non solo per l’abbandono a metà stagione, non solo per la reputazione del manager, ma anche e soprattutto perché il Leicester City si era ormai lasciato alle spalle la nomea di squadra di cui poteva interessare qualcosa solo ai propri tifosi. Che restano in maggior parte locali, come è giusto che sia: i superficiali, quelli che tifano via Instagram o TikTok, perdono presto l’attenzione se il piatto del giorno non viene rinnovato, e sul piano etico è meglio perderli che trovarli, anche se il responsabile del negozio della squadra ha molti motivi per dissentire.

E se è vero che per il secondo anno consecutivo rischia di svanire un posto in Champions League che fino a poco fa pareva acquisito è anche vero che per la finale di FA Cup tutta questa roba DEVE essere messa da parte. Non importa che la coppa sia ormai da anni passata in secondo piano a prescindere, e che quest’anno si giochi – in tempi lontani era accaduto spesso – in una giornata di campionato in cui ad esempio Brighton-West Ham sarà molto seguita per le medesime implicazioni europee: far vincere la coppa per la prima volta al Leicester City, che a Wembley giocherà con la divisa granata, vorrebbe dire per Rodgers rilanciarsi ulteriormente, far capire ai suoi che il lavoro paga e che la versatilità ammirevole vista in buona parte dell’anno, con passaggio frequente dalla difesa a quattro a quella a tre, nasce dal medesimo studio che può dare frutti in futuro. In fondo, con obiettivi e disponibilità economica proporzionalmente molto inferiori, il Leicester City del manager Martin O’Neill tre volte finalista di Coppa di Lega tra il 1997 e il 2000, con due vittorie e una sconfitta, diede al nome del club, per una manciata di anni, una risonanza e una carica inusuali, prima che si ricadesse nella storica mediocrità. Ecco perché i neutrali probabilmente tiferanno per i/le Foxes: non più sfigati, non ancora sufficientemente integrati nel sistema, non aspiranti alla Superlega, non accusabili di godere di risorse spropositate, sono una via di mezzo che può ancora attrarre.

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