La conversione di Silvia Romano

11 Maggio 2020 di Stefano Olivari

Cosa c’è di bello nella storia di Silvia Romano? Assolutamente niente, con buona pace dei tanti odiatori di se stessi e di quei troppi preti per i quali il Cristianesimo non è poi così importante. Una ragazza italiana è andata in Kenya a fare del bene, è stata rapita da banditi in quanto italiana e quindi merce pregiata, ceduta ad un gruppo di terroristi islamici, tenuta prigioniera per un anno e mezzo in luoghi diversi della Somalia, liberata dietro il pagamento di un riscatto (i 4 milioni di euro, paragonati ad altri casi, sembrano pochi).

Infine è tornata in Italia convertita all’Islam, per sindrome di Stoccolma, necessità per la sopravvivenza o libera scelta. Un caso da manuale, con tanti esempi nel passato reale anche senza citare la fiction di Homeland. Un po’ come se Cesare Casella e Alessandra Sgarella fossero tornati a casa dicendo di essersi affiliati alla ‘ndrangheta, ovviamente senza pressioni fisiche e psicologiche, e i poliziotti avessero detto che sì, in fondo bisogna calarsi nella cultura di un territorio.

Non entriamo nel dettaglio di una storia ancora vaga, ma una considerazione la facciamo lo stesso. Pagando questo riscatto l’Italia ha messo ancora una volta un bersaglio sulla schiena di tutti i suoi cittadini in giro per il mondo, per lavoro, turismo o solidarietà. Ma non è una considerazione anti-italiana, visto che la maggior parte dei paesi occidentali (Germania, Francia, Spagna, per dire i principali) ha questo approccio per così dire trattativista. All’opposto la pensano Stati Uniti, democratici o repubblicani che siano i presidenti, e il Regno Unito, che nei limiti del possibile provano sempre l’azione militare o a far intervenire una banda rivale dei rapitori. Chi ha ragione? Di sicuro tutti si comportano come la maggioranza del loro paese vorrebbe: Silvia Romano in una bara avrebbe fatto perdere più voti di Silvia Romano islamizzata e pagata 10 milioni.

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