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Football Americano

Joe Montana e Dan Marino

Roberto Gotta 13/04/2021

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Generazione Joe Montana – Storie di football anni Ottanta, è in vendita in libreria e su Amazon, sia in versione Kindle sia in versione cartacea. Qui proponiamo un estratto del primo capitolo, ‘Montana e Marino’.

(…) Monongahela, Pennsylvania. Pittsburgh, Pennsylvania. San Francisco/Redwood City, California.Palo Alto, California.Miami, Florida. Cinque città a formare un triangolo sulla mappa degli Stati Uniti, e non è un’anomalia geometrica. Perché allontanandoci dalla cartina, guardandola dalla prospettiva di un satellite in orbita, le prime quattro località, a coppie, formano un punto solo. Un punto forte, se si parla di football, e con la capacità di accendere un intero decennio, gli anni Ottanta. Da Monongahela viene Joe Montana, quarterback, classe 1956. Da Pittsburgh Dan Marino, quarterback, classe 1961. Montana ha giocato dal 1979 al 1992 nei San Francisco 49ers, che si allenavano a Redwood City, mentre Marino dal 1983 al 1999 ha rappresentato i Miami Dolphins. Il loro primo e più famoso incontro, il 20 gennaio 1985, avvenne a Palo Alto, lo stadio della Stanford University, situato a circa 10 miglia dalla sede dei 49ers, trasferita poi nel 1988 a Santa Clara, dove oggi giocano.

20 gennaio 1985 vuol dire esattamente metà degli anni Ottanta, con pochi giorni di scarto. Quasi una svolta di quel decennio, quasi un perno attorno al quale far ruotare questa narrazione disordinata e intrecciata tra America e Italia. San Francisco già una volta campione e con Montana che stava diventando uno dei grandi giocatori del suo tempo (e non solo), Miami che grazie a Marino era tornata a giocarsi il titolo solo due anni dopo la sconfitta contro Washington. E soprattutto, però, due giocatori nati e cresciuti a pochi chilometri di distanza, venuti su l’uno nell’ammirazione dell’altro in una regione degli Stati Uniti, la Pennsylvania appunto, che galleggiando tra stereotipo e realtà ha sempre mandato in giro personaggi dal temperamento solido, che fosse mascherato dal sorrisetto – Montana, Marino – o meno. Partiti per due lati opposti dell’America, i due si ritrovarono a confronto a pochi chilometri dalla casa di uno di loro, e questo elemento fu importante tanto quanto quello tattico, in quella settimana. Anzi, divenne un tormentone, un’ossessione per i media americani.

All’epoca, però, in Italia quel grande Super Bowl non venne evidenziato in questi termini. Per lo meno, non ricordo che lo sia stato, anche per le difficoltà che c’erano ad avere certi dettagli. È uno degli elementi che ho sempre faticato a comprendere, della narrazione nostrana dello sport, non solo americano ma straniero in generale. Per capirci parto da lontano: siamo italiani, uniti da una lingua comune e una comune cultura, ma non siamo una massa indistinta. Ogni regione, ogni provincia hanno il proprio dialetto, la propria inflessione, le proprie usanze, e sappiamo benissimo che proprio per questo motivo certi derby locali o storici possono essere più sentiti di grandi scontri con squadre di nome. Quando nel calcio si gioca Verona-Napoli, ad esempio, ci vengono in mente dissapori, ruggini, contrasti, polemiche interregionali con risvolti anche spiacevoli. Non è una partita qualsiasi, a prescindere dal valore tecnico. Allo stesso modo, se in un Palermo-Udinese vediamo un manipolo di tifosi friulani in curva sappiamo immediatamente che per loro si è trattato di una trasferta complicata, costosa, lunga. Ebbene, molto spesso importanti sfide americane, inglesi, spagnole con temi analoghi ci sono state presentate come semplici 11 contro 11 senza che ne venissero date l’interpretazione e la chiave di lettura che avrebbero permesso un’esperienza diversa, più profonda, più coinvolgente, così come ad uno straniero dovrebbe essere presentato un Verona-Napoli o spiegata la fatica di andare da Udine a Palermo o viceversa. È anche ciò che rende unica qualsiasi partita, a prescindere dal suo valore tecnico e tattico. Ma quando – tifoserie a parte, che in trasferta in genere non vanno – ci sono stati incroci analoghi nello sport americano solo raramente abbiamo avuto il piacere di poter approfondire, di poter capire quali mondi, regioni, zone rappresentassero le due squadre. È mancata una mediazione culturale, di cultura popolare e non necessariamente profonda, che a quei tempi era del resto difficile fornire, per la scarsità di materiale.

Insomma, in parole povere: il Super Bowl XIX fu sì San Francisco contro Miami, fu sì una sfida tra due squadre di coste opposte, ma fu anche un faccia a faccia tra due quarterback con tante affinità e particolarmente popolari in Italia, dove la loro fama si era espansa con i bizzarri mezzi citati nell’introduzione: un misto di foto, notizie fugaci, passaparola, telefonate furtive, discussioni in spogliatoio e sui pullman delle trasferte. Il partito pro Montana ne metteva in risalto la tranquillità, il sorriso, la capacità di guidare la propria squadra alla vittoria a prescindere dalle difficoltà. La fazione pro Marino puntava sulla potenza, sui lanci al laser, sulla spettacolarità di un attacco che girava attorno all’estro di Mark Duper e Mark Clayton, i cosiddetti Mark Brothers o Mark II, altro termine che non ci venne mai spiegato. Quando di un prodotto esce una seconda versione, infatti, al suo nome si aggiunge ‘Mark II’, ‘Mark III’ se se ne aggiunge una terza e così via. Il soprannome dunque nacque sia dal nome di battesimo dei due sia dal fatto che l’abitudine prevalesse in ambito militare: non solo i due Mark, ma un doppio Mark come arma a disposizione di Marino.

Come poi si fosse arrivati a quella sfida è discorso ancora diverso, sommerso carsicamente in quell’epoca di informazioni saltuarie. Si sapeva di un Montana uscito da Notre Dame e di un Marino che aveva invece giocato a Pittsburgh, ma era impossibile, per la scarsità di canali informativi, scoprire altro. Erano due nomi, due miti più o meno in formazione, ma il loro percorso e la loro vita sono emersi un po’ alla volta. Nel mio caso, per la fortuna di aver visto Montana giocare e vincere due Super Bowl consecutivi, al termine delle stagioni 1988 e 1989. Quando sei lì ti si apre il mondo: non necessariamente facendo domande – mi sono sempre astenuto, per scarsa curiosità e per rispetto delle priorità dei cronisti locali – ma soprattutto ascoltando le risposte. Fate conto che all’epoca i giocatori incontravano i media, al Super Bowl, dal martedì al giovedì compresi: tre giorni di bombardamento nei quali poteva capitare di sentir fare più volte una stessa domanda ma che permettevano l’uscita allo scoperto di aneddoti, dettagli, curiosità. Non di rado sollecitate da cronisti magari poco noti ma di grande professionalità e conoscenza, allevati a puntare la torcia in ogni angolo che avesse una potenziale prospettiva locale. Sono, o meglio erano prima che il web svalutasse (anche) il loro ruolo, gli inviati per cui l’approdo al Super Bowl del ragazzo cresciuto nel paese accanto rappresenta l’occasione della vita per seguire da vicino un evento del genere, altrimenti inaccessibile. Quelli che nel pezzo meticolosamente inviato da Pontiac nel 1982, Palo Alto nel 1985, Miami nel 1989 o New Orleans nel 1990 scrivevano ‘Monongahela’s Joe Montana’ o ‘former Ringgold standout Joe Montana’, perché per quanto ormai residente nella Bay Area restava, per i lettori, il ragazzo venuto da lì, dalla valle del fiume Monongahela, l’ex fenomeno del liceo Ringgold. (…)

Generazione Joe Montana – Storie di football anni Ottanta, di Roberto Gotta (editore Indiscreto) è in vendita in libreria e su Amazon, con il servizio Prime, sia in versione Kindle sia in versione cartacea (217 pagine). Distributore per tutta l’Italia è Distribook.

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