Pallacanestro senza appartenenza (intervista a Flavio Tranquillo)

14 Novembre 2014 di Stefano Olivari

Prima di leggere Altro tiro altro giro altro regalo, l’ultimo libro di Flavio Tranquillo, temevamo quello che su Indiscreto abbiamo spesso definito ‘Effetto Rino Tommasi’. In altre parole: hai passato così tante ore della tua vita ad ascoltare una persona, sia pure attraverso un televisore, che essere sorpresi da un suo racconto è quasi impossibile. Invece l’opera, edita da Baldini & Castoldi e uscita da pochi giorni, ha davvero un suo perché. Intanto è un atto d’amore nei confronti della pallacanestro, diverso dal classico libro di aneddoti o dal ‘come eravamo bravi’ che strizza l’occhio ai nostalgici. E poi si tratta di un libro molto personale, sul rapporto con una passione divorante e in certe età ossessiva, in cui molti (noi di sicuro) si possono identificare. Su tutto vince poi la materia trattata ed il fatto che Tranquillo possa raccontarla e spiegarla da varie angolazioni: arbitro, allenatore, dirigente e soprattutto giornalista a diversi livelli. Un libro che fa riflettere e di cui Indiscreto ha parlato con l’autore.

Flavio, fra i tuoi libri questo è dichiaratamente il primo personale e in certe parti quasi intimo. Come mai questa scelta adesso? Per tirare un bilancio, a 52 anni di età, o per evangelizzare?
Per nessuno dei due motivi… Perché me l’hanno chiesto, si usa dire così però nel mio caso è vero. L’editore è un amico e mi ha detto che voleva questo tipo di libro. Forse aveva colto che avevo qualcosa da dire, mentre fosse stato per me sarei arrivato a 82 anni senza scriverlo. Poi in pratica è stato tutto facile, il problema semmai è stato scartare. Di sicuro non è un bilancio, questo no.

All’inizio scrivi una cosa abbastanza impopolare. Cioè ti dichiari contro la divulgazione superficiale nelle telecronache, intesa come livellamento verso il basso ed eccessiva semplificazione. Come hai maturato questa convinzione? Ci ricordiamo di un tuo intervento, nel libro su Aldo Giordani ‘Quando il basket era il Jordan’, in cui invece elogiavi il suo doppio registro: popolare in RAI , per addetti ai lavori su Superbasket.

È vero, ma stiamo parlando di 1954 e 2014. 60 anni che sembrano 600. Giordani all’inizio parlava dall’unico canale televisivo esistente in un’Italia con il 13% di analfabeti. Adesso il pubblico è ben diverso, se la materia interessa ci sono mille possibilità di approfondire. E comunque non ritengo divulgazione quella di trattare gli altri come minus habentes. Ricordando il Giordani televisivo, poi, devo dire che era a volte didascalico ma mai banale. Proprio lui è la prova che divulgazione non significhi andare verso il basso.

Il libro è diviso in quattro parti, ma pur avendo fatto tu sia l’arbitro che l’allenatore quella più personale è ovviamente la parte sul giornalismo. Insisti molto sull’impossibilità del tifo per chi voglia fare il giornalista sportivo. E lo dici sia da ex tifoso dichiarato dell’Olimpia Milano che, sotto questo aspetto peggio ancora, da giornalista-radiocronista embedded negli anni d’oro della medesima squadra. Come hai fatto ad un certo punto a cambiare?
Non saprei dirlo, è stata un cosa molto lenta. Il mio tifo era per una certa Milano, è chiaro che con l’arrivo di Stefanel tutto è diventato un’altra cosa. Il rapporto diretto con persone che c’erano prima, con cui ero in pratica cresciuto, non ci sarebbe più potuto essere. Lì è iniziato il distacco dal tifo, diventato totale quando mi si sono aperti altri orizzonti professionali e di vita. Adesso mi sembra impossibile aver passato così tanto tempo a guardare partite solo per capire se Milano avrebbe vinto o perso, quasi che fossi un’altra persona.

Tu eri un bambino appassionato di calcio, tifoso del Milan, prima di rimanere folgorato della pallacanestro nel 1975, alla prima partita di serie A vista dal vivo. Potrebbe accadere a un bambino del 2014 con la serie A di oggi?
Di istinto dico di no, ma è ovvio che è la risposta di uno di 52 anni. Pensandoci meglio… Il bambino non credo possa sapere se il Tizio della serie A di oggi è più forte del Caio di ieri o del Sempronio che vede in tivù, quindi penso che la scintilla possa scoccare anche con il basket italiano attuale. Un trentenne invece la vede di sicuro diversamente.

Fino a che punto l’amicizia con gli addetti ai lavori è un vantaggio, per capire meglio certe dinamiche non solo tattiche? E fino a che punto ti limita nei giudizi? In altre parole: sei in difficoltà quando parli di Messina e Ginobili?
Sarei un marziano se dicessi che l’amicizia non mi condiziona, credo però nel tempo di aver maturato un po’ di convinzioni che valgano a prescindere dalle persone. Spero di essere amico solo di persone che accettano le critiche, in ogni caso spero di essere capace di scindere i due aspetti della conoscenza. Soprattutto spero di usare lo stesso metro anche con chi non conosco o non ascolta le telecronache.

Ad un certo punto scrivi che quello sportivo non è vero giornalismo, cioè che il giornalista sportivo è prima di tutto uno sportivo e poi un giornalista. È solo perché il tema non è decisivo per le sorti dell’umanità o anche perché non esiste nello sport un pubblico in grado di apprezzare il vero giornalismo?
Non possiamo mettere Flavio Tranquillo sullo stesso piano non solo di Fava e Siani, ma anche di quelli che pur non minacciati di morte raccontano fatti di importante valore sociale. La differenza è che il modo in cui certi fatti vengono raccontati può creare danni alla comunità diversi da quello di non riconoscere un pick and roll o il valore di un giocatore. Credo che nemmeno si debba far parte dello stesso ordine professionale, ma la pallacanestro qui non c’entra.

Citi tanti motivi per amare la pallacanestro. Se non esistesse, quale sarebbe il tuo sport preferito, il football? Nel caso, lo avresti seguito solo come appassionato o gli avresti dedicato la vita?
Non credo che per football o calcio avrei avuto questa curiosità ossessiva che invece ho maturato per la pallacanestro. E anche nella stessa pallacanestro ho avuto due fasi diverse: nella prima il rapporto era superficiale, con la parte giornalistica che mi affascinava più di quella sportiva. Adesso anche se non facessi il giornalista non potrei vivere senza guardare la pallacanestro in un certo modo.

Spesso metti in relazione la legalità, nel senso anche di accettazione di regole e sentenze, con lo spirito della convivenza sportiva. L’appassionato di basket è in questo senso, in media, migliore di quello di calcio?
Sì, oggettivamente. No, come categoria dello spirito. Nel basket ci sono meno interessi, meno pressioni, meno tutto. La relativa maggiore sportività è più facile per questo, si tratta quindi di un discorso quantitativo. Non è che ce l’abbiamo dentro, il rispetto delle sentenze più o meno giuste. Ma non è un problema solo dello sport: sto facendo fatica a leggere delle reazioni di De Magistris e Saviano a sentenze che li riguardino, lo ammetto.

Non lo dici chiaramente, ma si capisce che il punto di svolta del tuo modo di vedere il basket è stato Livorno 1989. Confermi?

Sì, anche perché è stata l’ultima pagina di una certa Olimpia. Stupidamente mi sentivo uno di loro, soltanto perché viaggiavo con loro e ne raccontavo le gesta. Quella di garacinque fu una giornata eccessiva, sotto ogni punto di vista. Non esagero: ancora oggi a 25 anni di distanza se ne parla in certi termini, senza preoccuparsi di verificare le proprie convinzioni. Una cosa è riaprire un caso sulla base di fatti o prove nuovi, un’altra è la dietrologia sballata. Questa non si può ascoltare. 

Hai fatto radio e telecronache di ogni tipo di basket: è più difficile la NBA, rivolgendosi a un pubblico di appassionati spesso supercompetenti, o la serie A quando davanti al video la maggioranza è tifosa?
Non so rispondere, perché ogni partita ha una sua storia e una sua difficoltà nel racconto. Sono sicuro però che sia sbagliato fare una telecronaca preoccupandosi del proprietario, dell’allenatore, dell’amico, di chiunque. Anche del tifoso o del competente ipercritico, quindi.

In molti punti parli del tuo rapporto con Federico Buffa, iniziato davvero per caso, su un campetto di via Soderini a Milano. E continuato sulle radio locali addirittura con te come seconda voce e lui per il play-by-play. Parte degli appassionati sta vivendo la sua svolta calcistica come un tradimento: quante possibilità ci sono di rivedervi insieme a commentare la NBA?
Non saprei fare un numero. Il ritorno alle telecronache NBA dipende solo dalla volontà di Federico. Mio pronostico, pur sapendo che i pronostici su Buffa sono impossibili: le probabilità di risentirlo a un microfono per la NBA sono più vicine a 0 che a 100. Parlare di tradimento è in ogni caso esagerato, spero non ci siano tante persone che guardano la pallacanestro ‘per quei due fessacchiotti’, come diceva Giordani.

Quindi sei dalla parte dei super-puristi che sostengono di guardare le partite togliendo l’audio del commento, magari tenendo solo i rumori di fondo?
Certamente no e non solo perché faccio telecronache. È che i giornalisti non sono più importanti dell’evento che commentano, anche se la telecronaca fa parte di quello che il telespettatore di solito si aspetta. Non nego di avere provato una certa soddisfazione vedendo Ettore Messina chiedere a un suo assistente, mentre stavano analizzando al video una partita, di alzare il volume per ascoltare il telecronista. 

Nel basket si ha la sensazione che i giornalisti siano divisi in fazioni, tu stesso sei stato accusato di essere il riferimento di una di queste fazioni. L’ultima domanda di questa intervista per Indiscreto è quindi la seguente: perché nella pallacanestro i giornalisti contano in proporzione più che nel calcio?
Contano di più perché 5 giornalisti invece di 5.000 contano di più, per una questione matematica e perché l’ambiente è più piccolo sotto diversi profili. Ho percepito la questione delle fazioni, ovviamente leggo e ascolto. Però la fazione no, proprio no. Non ci sono mai entrato, non ne faccio parte, tanto meno ne dirigo una. Di più: mi arrabbio come una bestia, ancora oggi a 52 anni, quando mi si vuole ricondurre a una fazione. Ogni errore o sbaglio è fatto con la mia testa. Uscendo dalla pallacanestro, devo dire che la parola ‘Appartenenza’ è una delle parole peggiori di questo paese. Se uno fa il giornalista, o almeno ci prova, si deve impegnare a non dire cose per appartenenza. Almeno non deve farlo coscientemente, sarebbe già una bella cosa. Chiudendo con il basket, l’idea perniciosa di molti giornalisti è che tutti sappiano tutto di tutti gli altri addetti ai lavori. Questo atteggiamento da dietrologi permanenti, basando la propria dietrologia non su fatti ma su simpatie, non mi sembra giornalismo ma altro. Comunque la vita e la pallacanestro, per fortuna, vanno avanti lo stesso.

(intervista in esclusiva per Indiscreto)

ALTRO TIRO ALTRO GIRO ALTRO REGALO – O anche di quando, come (e soprattutto perché) ho imparato ad amare il Gioco, di FLAVIO TRANQUILLO (editore Baldini & Castoldi). 224 pagine, 16 euro (6,99 la versione eBook). 

Share this article