Il Mennea mai visto

16 Settembre 2013 di Stefano Olivari

Carlo Vittori non è soltanto una leggenda dell’atletica mondiale, ma è anche uno dei suoi pochi esponenti di primo piano a ricordare il motivo per cui venga definita la regina degli sport. L’allenatore di Pietro Mennea e di tante generazioni di velocisti azzurri è stato lui stesso un buonissimo atleta, campione italiano dei 100 metri e staffettista ai Giochi Olimpici del 1952 a Helsinki, ma è come tecnico che il suo nome è arrivato anche alle orecchie foderate di calcio dell’uomo della strada. Perché i suoi successi non sono legati solo a Mennea, ma anche ad altri velocisti (Tilli, Pavoni, Simionato, Caravani, Lazzer), quattrocentisti (Zuliani), ottocentisti come Fiasconaro (che nel 1973 a Milano stabilì il record mondiale) e il due volte finalista olimpico Sabia. A 82 anni Vittori evita la facile fuga in un passato felice e continua ad esercitare il suo ruolo di coscienza critica dell’atletica, dalla sua Ascoli Piceno. Dopo la disastrosa spedizione azzurra ai Mondiali di Mosca ascoltare le sue parole è quasi un dovere.

Professor Vittori, si aspettava il ritorno di Bolt a livelli mostruosi? Con le sue tre medaglie d’oro mondiali ha un po’ salvato l’immagine dell’atletica e della stessa Giamaica, rovinate dai recenti casi di doping…

Mi aspettavo che Bolt vincesse, ma non che lo facesse in questo modo. Mi ha impressionato soprattutto nei 100 metri, corsi sotto la pioggia in un 9’’77, con un leggero vento contrario, che poteva valere almeno un decimo in meno.  Ha vinto tutto e se ha ancora stimoli è un bene per l’atletica. Mi è sembrato di vedere un atleta integro.

In altre parole, si può affermare che Bolt non è dopato come molti altri velocisti di vertice? Oppure bisogna sospettare di tutti? Recentemente Sandro Donati a proposito di Bolt si è posto interrogativi maliziosi…

Ma come, proprio quel Donati che collabora con la Wada, cioè l’ente che sovrintende all’antidoping? Ma cosa ci stanno a fare, allora? Non si può gettare fango senza sapere… Nella velocità il doping si può trovare con test adeguati ma è anche vero che si vede a occhio nudo. Ai blocchi di partenza sembra di assistere a una sfilata di culturisti. La struttura fisica e la progressione graduale di Bolt nel corso degli anni testimoniano invece a suo favore, ma nell’atletica più che distribuire patenti di onestà si dovrebbe fare il contrario. Mi spiego: chi è stato trovato positivo a un controllo antidoping deve essere escluso per sempre dall’atletica che conta, senza quelle squalifiche di 2 o 4 anni che poi riportano in pista personaggi con un fisico costruito in maniera sporca. Mi riferisco, tanto per fare nomi, a gente come Gatlin.  Quanto alla Giamaica, incredibile non è Bolt ma il fatto che nella finale dei 100 metri ci fossero 4 giamaicani.

Il Bolt italiano era Pietro Mennea, che lo scorso marzo ci ha lasciato. Nel suo periodo migliore avrebbe potuto competere con il Bolt vero nei 200 metri?

Atleti di epoche differenti sono difficili da confrontare, guardare solo i tempi è semplicistico perché è chiaro che i ‘moderni’ escono quasi sempre vincitori. Però sono convinto che il miglior Mennea sarebbe stato battibile solo da un Bolt in forma. Sono convinto anche di un’altra cosa: il miglior Mennea è quello che non si è mai visto.

Si riferisce al suo ritiro a sorpresa, pochi mesi dopo l’oro olimpico di Mosca?

Proprio così. Dopo avere conquistato il successo più grande Mennea si sbloccò e inanellò una serie strepitosa di grandi prestazioni a livello del mare. Era così carico che sentiva di poter correre in 19’’50… Di più: gli allenamenti dei mesi seguenti furono straordinari, conservo ancora tutti quaderni con esercizi e tempi. A 28 anni Mennea poteva raggiungere traguardi cronometrici ben oltre il 19’’72 del suo record mondiale. In più nel 1981 ci sarebbe stata la Coppa del Mondo a Roma…

Però Mennea decise di lasciare l’atletica. Una vicenda a tutt’oggi misteriosa.

Anche per me. A gennaio, nella sede Fiat di Roma a fianco di Montezemolo, Mennea annunciò il ritiro. Avrebbe aperto a Barletta una concessionaria d’auto. Per me fu una sopresa, non ci potevo credere: era l’idolo sportivo di tutta Italia, gli sponsor se lo contendevano, guadagnava 20mila dollari a meeting. E lasciava tutto questo per vendere macchine? Fu il momento più difficile del nostro rapporto, non ci parlammo per mesi. Capivo la sua voglia di fare altro nella vita, ma avrebbe potuto rimandare di 4 anni. Al di là poi del fatto che quell’esperienza si sia trasformata per lui in un bagno di sangue finanziario. Quando tornò a correre Pietro fu ancora grande, ma il rimpianto per quegli anni d’oro buttati è rimasto.

Lei ha parlato di tempi cronometrici da valutare con attenzione. E’ d’accordo con chi propone di cancellare tutti i record dell’atletica, molti dei quali stabiliti nell’era del doping intensivo e non controllato, ripartendo da zero?

Per me è da abolire proprio il concetto di record, che all’atletica ha solo creato danni. Conta solo vincere o comunque dare il massimo nell’occasione più importante, tempi e misure devono essere solo indicazioni e non totem da adorare. Se poi vogliamo dare al record tutta questa importanza, fare distinzioni fra il passato e il presente è ingiusto: senza una positività all’antidoping come si fa a stabilire ufficialmente che un atleta è dopato?

Quand’è che l’atletica leggera ha iniziato a perdere la sua anima?

Negli anni Ottanta, quando presidente della federazione internazionale era Primo Nebiolo. Molti giornalisti sportivi lo consideravano un dirigente geniale, mentre secondo me è lui che insieme ad altri ha posto le basi culturali per la deriva etica che stiamo vedendo. Lo stesso concetto di atletica-spettacolo, a Nebiolo tanto caro, è assurdo. L’atletica non può essere uno spettacolo in senso stretto, non è che ogni domenica possa portare negli stadi milioni di persone. L’atletica è educazione integrale, l’atletica è cultura, l’atletica coincide con i grandi appuntamenti per cui si lavora tutto l’anno. Puntando sui meeting, sui personaggi e soprattutto sulla ricerca spasmodica del record era inevitabile che si arrivasse a questo punto.

Ben Johnson trovato positivo dopo la vittoria ai Giochi di Seul 1988 è stato il punto di svolta?

Fu il segnale che le cose avevano preso una certa piega, già da anni. Il record come obbiettivo supremo, il risultato da raggiungere a ogni costo. Un clima di impunità che nel 1987 aveva portato all’episodio del salto truccato, di mezzo metro, di Evangelisti al Mondiale di Roma. Ma soprattutto al doping poco cercato, diciamo così, nei grandi meeting. Quelli delle gare di mezzofondo dove tutti sono in fila… Gare in cui erano indispensabili le lepri, cioè atleti che tengono alto il ritmo nella prima parte di gara e poi si ritirano. La situazione era così degenerata che anche le lepri si dopavano, qualcuna ha anche frequentato il Centro di Formia.

Come mai oggi l’Italia dell’atletica è così in basso?

L’unica medaglia dei Mondiali è arrivata nella maratona da Valeria Straneo, una donna che fino a 3 anni fa correva  a livello amatoriale e che non è certo un prodotto della federazione, tanto meno di quella presieduta da Giomi: mi sembra significativo. I problemi sono tanti, dal reclutamento alla preparazione per gli appuntamenti che contano: in inverno tutti fenomeni, in estate un po’ meno… Poi c’è la questione dei gruppi sportivi militari, a cui sono affiliati quasi tutti gli atleti di vertice. Centinaia di ragazzi che prendono uno stipendio dallo Stato, oltre ai contributi della federazione e agli ingaggi dei meeting, senza dover rispondere di nulla.  Ci si adagia in una routine che è nemica dei grandi risultati. Una situazione che potrebbe migliorare in pochi anni, se solo si tornasse a lavorare su obbiettivi precisi e di alto livello.

(Intervista pubblicata su Il Giornale Style uscito venerdì 13 settembre 2013)

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