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Il giallo della stretta Bagnera, l’eterna passione per i Boggia

Daniele D'Aquila 09/09/2014

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La storia di Antonio Boggia, detto El Togn (l’Antonio), il terribile assassino, serial killer un secolo prima che venissero inventati i serial killer, autore lungo la metà dell’Ottocento di una serie di crimini (per la maggior parte efferati omicidi e truffe, dovuti in parte ad una personalità contorta e soprattutto ad avidità), messi a segno grazie soprattutto alla maniera con cui il Boggia riusciva a carpire la fiducia altrui aggirando le diffidenze la cui vicenda ha segnato per anni l’immaginario e la cultura della città di Milano (ancora un secolo dopo le vicende, l’espressione vün Bogia segnalava una persona poco raccomandabile di cui diffidare, qualcuno la ricorderà in uno spettacolo di Aldo, Giovanni e Giacomo: “Chel lì…”, “El bogia?!…”, “See, il bogione…”).

L’autore Giovanni Luzzi ha vissuto l’intero ventesimo secolo, nascendo all’inizio e morendo quasi alla fine (si è perso giusto l’era digitale, ecco…). Nato da un agiata famiglia della tipica alta borghesia milanese, discendente di una dinastia attiva in ambito legale, ha cominciato presto a lavorare come avvocato. Esperto, studioso ed appassionato pertanto di criminologia, psicologia giudiziaria, filologia e cultura meneghina, si è esibito in varie arti tra cui la scrittura. Autore di alcune commedie e diversi libri in cui fonde le sue passioni discettandone in maniera quasi satirica e condendoli con humour e sarcasmo, la sua vera chicca è Inscì parla la mala: un vero e proprio manuale-dizionario sul gergo della malavita milanese che, grazie alla citata ironia, danza in equilibrio tra dialetto e “gergo tecnico” (!).

Allo stesso modo è stato completato Il giallo della stretta Bagnera, dove nella prima metà del libro vengono descritti i fatti con quello che solo in seguito si comprenderà essere un mirabile sarcasmo con cui sceneggiare quella che è solo la visione della contorta mente del Boggia. Il sarcasmo dell’autore trova terreno fertile nella descrizione delle vicende soprattutto riguardo lo svolgimento del processo, reso complesso dal passaggio, negli anni correnti, dall’ordinamento legislativo asburgico a quello sabaudo a seguito dei fatti politici riguardanti il Risorgimento Italiano. Autore che pare quasi provare un certo divertito e genuino sadismo nell’osservare e descrivere le falle del sistema giudiziario dell’epoca e l’ingenuità delle larghe maglie della rete legale che permisero per anni ad un “magùtt” (traduzione: manovale, cioè persona che lavora nei cantieri con un rango inferiore a quello del muratore… fuori dai cantieri usato nel senso di ‘persona di basso livello’) di protrarre le proprie malversazioni, riuscendo a prendere per il naso non solo le vittime dei suoi reati ma anche istruiti ed autorevoli notai, pretori, funzionari della Questura, eccetera., aiutato in questo da una serie di cavilli e coincidenze che paiono frutto di un autore di commedie e invece rappresentano la mera realtà.

In questo impianto si staglia la figura di Antonio Boggia, continuamente a cavallo tra la dimensione di malato di mente e quella di furbastro che cerca nella presunta infermità mentale una scappatoia (“Fare il gioppino per non pagare il dazio”, come si diceva una volta a Milano…), durante un processo che appassionerà l’intera città, con frotte di spettatori ad accalcarsi in aula con un voyeurismo morboso (cosa vi ricorda?) in cui mancano solo i selfie per anacronismo tecnologico ma c’è comunque un fotografo che chiede ed ottiene dal giudice il permesso di immortalare l’imputato che però pretende di essere pagato per cedere i propri diritti d’immagine, in un’atmosfera tanto grottesca quanto surrealmente attuale.

A far da cornice al tutto la descrizione cittadina, tra una toponomastica che la fa da padrone fin dal titolo (ed obbliga il lettore a giostrare tra quartieri odierni che nella descrizione dell’Ottocento diventano contrade e “strette” che oggi si chiamano semplicemente vie, tra citazioni di palazzi che rispondono a chi sostiene che Milano sia brutta e scoperte di un periodo in cui un modesto artigiano poteva abitare in Monte Napoleone) e un dialetto con le cui espressioni (ma senza il cattivo gusto del troppo indugio) viene farcito il tessuto narrativo (manteniamo giusto qualche riserva su alcune annose questioni irrisolte, tipo la “U” milanese che nello scritto diventa spesso “O” ancorchè chiusa…). A cavallo tra cronaca, romanzo e romanzo storico, il libro scorre velocemente e piacevolmente, lasciando perplesso e sgomento il lettore riguardo al piacere e al divertimento provato nel leggere di vicende così macabre ed eventi così raccapriccianti.

“Il giallo della stretta Bagnera”, di Giovanni Luzzi, editore Pagine Disparse, 13,00€

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