Giocatori di Franco Rossi

30 Ottobre 2022 di Enzo Palladini

Nove anni fa moriva Franco Rossi e rispettando il suo spirito da vivo evitiamo orazioni funebri, dopate dal fatto che fosse un amico nostro, del direttore di Indiscreto e di altre persone che non lo hanno dimenticato. Così per ricordarlo proponiamo un capitolo di ‘A cena con Franco Rossi – Storia e storie di un giornalista sportivo‘, libro scritto insieme a Stefano Olivari quale he anno fa. Il capitolo si intitola ‘Giocatori di Franco Rossi’: noi lo siamo stati in campo e anche fuori. 

Non è corretto dire che Franco Rossi sognasse di fare l’allenatore. Molto più verosimile la teoria secondo la quale si considerava in nuce il più grande allenatore della storia del calcio. Il suo mito era João Saldanha, un signore che in gioventù aveva fatto lo studente comunista, il giocatore di calcio nel Botafogo, poi il giornalista d’assalto e che nel 1968, dopo una parentesi sulla panchina del Botafogo, era stato nominato commissario tecnico della nazionale brasiliana. Percorso netto: durante le qualificazioni per Messico ’70 dodici partite e dodici vittorie. Nella sua prima conferenza stampa del 1968 aveva già dato la lista dei 22 giocatori che avrebbero giocato il Mondiale, divisi tra titolari e riserve. In Messico però non sarebbe andato, la dittatura militare aveva capito che il Brasile avrebbe probabilmente vinto il Mondiale e non poteva permettersi di trionfare con un comunista alla guida.

Il carattere estremamente competitivo di Franco scatenava duelli rusticani con molti allenatori, soprattutto quelli che venivano considerati o si autoconsideravano all’avanguardia per idee tattiche. Italianista convinto e forgiato dagli insegnamenti di Brera, considerava la difesa la base fondamentale della squadra e il contropiede la forma d’attacco più efficace. Delle prime forme di zona scrisse che erano tattiche mutuate dal calciobalilla, gioco in cui i calciatori devono forzatamente rimanere in linea. Proprio su questo campo si scatenò una vera guerra di religione con Arrigo Sacchi. Dopo avere azzardato che quello del Milan fosse un calcio “masturbato”, nel senso di fine a se stesso e non al risultato, tra le righe del commento di una partita contro l’Empoli del 1987-88 scrisse: “Sacchi dice di praticare il calcio del 2000. Bene, vincerà tra dodici anni”. Alla fine della stagione il Milan vinse lo scudetto, trampolino per le due successive Coppe dei Campioni. Sacchi non ha mai dimenticato quelle parole, anche se nella storia successiva i rapporti tra i due, a livello umano, sono stati sempre improntati a una cordialità magari un po’ forzata però sana.

Nel 1991 Ernesto Pellegrini decise di sostituire Trapattoni con Corrado Orrico, che alla guida della Lucchese aveva dimostrato di essere il potenziale profeta di un gioco a zona che in Italia faceva ancora pochi proseliti. Lo spessore del personaggio Orrico, decisamente sopra le righe, scatenò una polemica divertente. Dopo la partita di Cagliari del 20 ottobre 1991 Franco stava finendo il suo commento per il Giorno all’aeroporto di Elmas. L’Inter era già ripartita e a un certo punto spuntò Sergio Battistini, uno dei più a disagio con la filosofia orrichiana. Battistini era in ritardo perché si era dovuto fermare all’antidoping. Franco gli chiese se potesse leggergli le prime righe del servizio e prima ancora di ricevere risposta iniziò a declamare: “E se Orrico non fosse un allenatore?”. Battistini non poteva certo scoppiare in una risata, non si sa mai, però accennò un sorriso e sotto sotto pensava che Franco non avesse tutti i torti. Non a caso Orrico finì tre mesi più tardi la sua dimenticabile avventura sulla panchina nerazzurra.

In teoria, Ottavio Bianchi faceva parte di quella categoria di allenatori graditi alla filosofia di Franco Rossi. Ma tra i due probabilmente c’era un problema più personale che di sistema di gioco. Quando Bianchi era sulla panchina nerazzurra, Franco scrisse un giorno: “L’Inter ha tre schemi d’attacco. Rinvio di destro di Pagliuca, rinvio di sinistro di Pagliuca, rinvio di mano di Pagliuca”. E di fronte alle rimostranze dell’allenatore, regalò ai suoi lettori una chicca ulteriore: “Chiedo scusa a tutti per avere scritto quella frase. Pagliuca calcia solo di sinistro, quindi gli schemi d’attacco sono solo due”.

La caratteristica di chi pensa in grande è andare in conflitto con i grandi o quelli che lo stanno diventando. Marcello Lippi arrivò all’Inter nel 1999 reduce da una lunga stagione di vittorie con la Juventus. Moratti gli diede quella che veniva comunemente definita ‘carta bianca’, la possibilità di scegliere come in Inghilterra i giocatori da acquistare e da cedere. Un ruolo manageriale che forse era il vero sogno della vita di Franco. Ma alla Juve Lippi aveva alle spalle Luciano Moggi e tutta la sua organizzazione, quel Moggi che con Franco ha intrattenuto per decenni ottimi rapporti nonostante qualche bugia di troppo raccontata in fase di mercato. Franco e Luciano erano degli inguaribili ‘cavallari’, appassionati di corse e di scommesse, caratteristica questa che li portava ad avere un’intesa non solo professionale. L’arrivo di Lippi all’Inter aprì quindi un nuovo fronte, perché secondo Franco le vittorie della Juve erano solo in parte merito di Lippi, con grande partecipazione invece della struttura societaria. Così alle prime difficoltà di un’Inter lippiana che era partita molto forte Franco coniò una definizione che divenne per qualche mese il suo cavallo di battaglia: “L’ex allenatore della Juve (o ex allenatore e basta)”.

Ma l’ebbrezza della panchina, sia pure quella gelida e spesso scomoda dei campi di periferia, Franco l’ha provata per tanti anni. Aveva fondato una squadra che si chiamava Tuttosport, proprio perché all’epoca della creazione il quotidiano torinese era il suo posto di lavoro. L’aveva iscritta al campionato Endas (Ente Nazionale Democratico di Azione Sociale), un’organizzazione dopolavoristica comunque decentemente strutturata. Giocare il campionato Endas significava essere pronti la domenica mattina all’alba, attraversare Milano e andare a scannarsi su campi ghiacciati d’inverno e polverosi d’estate. Sono campi che nelle ore normali vengono impiegati per i campionati federali e che proprio per questo sono affittabili dalle squadre aziendali solamente alle otto o alle nove del mattino. Nonostante il nome Tuttosport di giornalisti in quella squadra se ne sono visti pochi e solo saltuariamente. Amedeo Goria, ex Tuttosport e poi Rai, avrebbe fatto qualsiasi cosa per giocare titolare ma Franco non lo vedeva, lo riteneva troppo disordinato tatticamente. In compenso nella squadra di Franco durante gli anni si sono visti personaggi di un certo spicco nel mondo del calcio, come Ariedo Braida, storico direttore sportivo del Milan, o Salvatore Di Somma, ruvidissimo libero dell’Avellino ai tempi della serie A e poi direttore sportivo. Per il resto la squadra era formata da ragazzi provenienti dai più vari settori della vita reale, quasi tutti clienti del bar dove Franco trascorreva gran parte del tempo libero nella zona di via Mac Mahon a Milano. C’era un nucleo di impiegati di banca tra cui spiccava Paolo detto Picchio, il capitano della squadra, più altri due o tre colleghi della stessa filiale. C’erano muratori e operai, ma c’era anche qualcuno che viveva di espedienti.

La particolarità che rendeva unica quella squadra era l’eleganza. Franco aveva rapporti splendidi con quasi tutte le società di serie A e riusciva a farsi regalare mute intere di maglie, pantaloncini e calzettoni. Si scendeva in campo con le maglie originali della Sampdoria, della Fiorentina o del Napoli, per l’invidia di tutti gli avversari. La squadra Tuttosport partì dalla serie C del campionato Endas per poi risalire la corrente fino alla serie A, ovviamente tra mille vicissitudini. Spesso si vedeva arrivare Franco in uno stadio la domenica pomeriggio con le scarpe infangate e schizzi di origine ignota sul cappotto. Niente di allarmante, semplicemente per una volta la partita della sua squadra si era giocata un po’ più tardi, magari alle undici. E lui era arrivato da un campaccio di Cinisello Balsamo a San Siro direttamente, saltando su un taxi in corsa giusto per non perdersi il fischio d’inizio.

La squadra di Tuttosport giocava ovviamente a uomo: era quasi impossibile che un avversario andasse in fuorigioco, perché il libero giocava costantemente sulla linea dell’area di rigore. C’erano sempre due marcatori attentissimi sugli attaccanti avversari, mentre i terzini facevano davvero i terzini, avanzavano pochissimo anche perché spesso non avevano il fiato per farlo. Uno dei centrocampisti invece il fiato doveva averlo perché veniva utilizzato per marcare a uomo la mezzapunta avversaria. Gli altri due avevano una discreta tecnica e dovevano verticalizzare appena possibile. Un discorso a parte meritano gli attaccanti. Nell’anno d’oro di Tuttosport, quello del campionato vinto, gli attaccanti titolari erano Paolo detto Pego, il cannoniere storico della squadra, e Dado, un dribblatore virtuoso del quale si diceva che avesse origini brasiliane e soprattutto precedenti penali non meglio specificati. Poi c’era Gaetano, giovanissimo e anche valido tecnicamente, una specie di Cassano con più fisico e soprattutto con la stessa indolenza. Franco lo inseriva sempre negli ultimi venti minuti perché era totalmente insensibile a qualsiasi sollecitazione emotiva. Prendeva il pallone e puntava la porta. Qualche volta risolveva le partite, altre volte si prendeva gli insulti di tutta la squadra.

La stagione 1987-88 fu quella del trionfo. La squadra ormai aveva raggiunto un livello di affiatamento totale e negli anni era stata migliorata con l’inserimento di qualche elemento che per quelle categorie poteva fare la differenza. Una cavalcata stupenda, con qualche piccolo contrattempo, soprattutto per le partite giocate alle otto del mattino che finivano per decimare il numero dei giocatori. Ma nei momenti decisivi c’erano tutti, a cominciare dal Conte, un personaggio divertente con un paio di baffoni rossicci che si era autoeletto dirigente accompagnatore della squadra e guidava una Porsche arancione parecchio vissuta.

Il giorno dopo aver vinto il campionato Endas, Franco ricevette un telegramma da Paolo Mantovani:Complimenti per la vittoria. Ora vogliate testare valore della squadra in amichevole contro la Sampdoria”. Così un giorno di primavera inoltrata dal solito bar partì un pullman con la squadra di Tuttosport. Destinazione Celle Ligure, dove la Sampdoria si allenava. Sembrava un sogno, invece era tutto vero. Sampdoria contro Tuttosport (che nel frattempo aveva cambiato il suo nome in Corriere dello Sport perché Franco era passato dalla testata torinese a quella romana). Nella Samp mancavano Bistazzoni, in permesso, e Vialli, impegnato a Cremona in una partita di beneficenza. C’era Pagliuca, che all’epoca era il terzo portiere, ma che venne schierato in attacco da Boskov perché il giorno prima si era parzialmente ustionato prendendo il sole e aveva mandato l’allenatore su tutte le furie: “Non diventerai mai un giocatore”, gli aveva detto. In porta giocava Bocchino, c’era Mannini che andava a cento all’ora, c’era Briegel che costringeva gli avversari a scappare da tanto era grosso, c’era Pino Lorenzo che se si fosse scambiato la maglia con un avversario non se ne sarebbe accorto nessuno. Soprattutto c’era Mancini, che si divertiva come un matto con le sue magie tecniche. All’inizio del secondo tempo Franco gli disse: “Faccio entrare Enzo Palladini, ti marca lui, peggio per te”. Una bella risata da parte di tutti i tre protagonisti di questo sketch. Da quel momento in effetti Mancini non segnò più, ma solo per caso. La partita finì 16-1 per la Samp, unico gol di Tuttosport segnato su rigore da Savino, un difensore marcatore che a differenza di quasi tutti gli altri ebbe il coraggio di prendere in mano il pallone e metterlo sul dischetto.

Quell’amichevole fu l’apoteosi e anche l’atto finale di questa storia, Un anno dopo Franco si fece convincere a rimettere insieme una squadra con giocatori nuovi, ma lo fece controvoglia, non si presentava mai agli allenamenti e faceva finta di dimenticarsi le iscrizioni ai tornei. Solo tre partite rappresentano la storia di questo esperimento, che venne battezzato Cerchio Blu come il club esclusivo di simpatizzanti della Sampdoria che Franco aveva fondato qualche anno prima. Tre sconfitte, ma contano poco rispetto a tutto il resto.

Estratto del libro ‘A cena con Franco Rossi – Storia e storie di un giornalista sportivo‘, di Enzo Palladini e Stefano Olivari (Indiscreto, 2018)

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