Musica

Eurovision: dopo Mahmood, cosa fare di più per vincere?

Paolo Morati 19/05/2019

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Mahmood ha chiuso con un magnifico secondo posto l’Eurovision Song Contest. A Tel Aviv la sua Soldi si è piazzata dietro il vincitore annunciato da mesi, il rappresentante dei Paesi Bassi Duncan Laurence che portava in gara la ballata Arcade, interpretata con perfezione discografica ma destinata a disperdersi nel mare del mainstream.

Un enorme rammarico per Mahmood, perché la distanza è stata minima (27 punti), ma che si può accogliere positivamente sia per l’ottimo riscontro che per la vittoria del Composer Award, assegnato da tutti i compositori in gara. Segno che la sua canzone non era per nulla banale, se confrontata con il resto della pattuglia di concorrenti.

Comunque l’interpretazione solida del ragazzo milanese, senza numeri circensi, ha colto decisamente nel segno. Smaltita la delusione a caldo (fino alla fine ci abbiamo creduto nella vittoria di Mahmood), a freddo la domanda che ci facciamo (e facciamo a voi) è “Cosa deve fare l’Italia per vincere l’Eurovision?” avendole tra l’altro provate un po’ tutte in termini di generi, alla faccia di chi dice che di noi si apprezza all’estero solo il bel canto.

Se guardiamo alle edizioni del nostro ritorno all’ESC, avvenuto nel 2011, i risultati sono quasi sempre stati lusinghieri. Secondo posto nel 2011 con Raphael Gualazzi e terzo nel 2015 con Il Volo, in mezzo a grandissime polemiche per via del voto delle giurie che ribaltò il verdetto del televoto dove i tre avevano trionfato, vincendo contestualmente anche il premio della critica (evidentemente assegnato da meno prevenuti e provinciali rispetto ad altri).

E poi, quinto posto per Ermal Meta e Fabrizio Moro lo scorso anno, sesto per Francesco Gabbani (e di nuovo premio della critica) due anni fa con Occidentali’s Karma fino alla vigilia favoritissimo, e settimo per Marco Mengoni nel 2013. Insomma, al di là delle teorie complottistiche e le polemiche sui voti tra vicini, anche se manca sempre quel qualcosa per vincere – e bisognerebbe capire che cosa – abbiamo il grande merito di portare sul palco eurovisivo la nostra lingua, mentre molti Paesi (quasi tutti) insistono con un inglese che rende tutto piatto e uguale, e decisamente anonimo oltre che poco coraggioso. Scimmiottando stili e proposte che alla lunga stufano se presentate in serie.

Nel mentre, a 29 anni dal trionfo di Toto Cutugno a Zagabria con un inno europeista (Insieme 1992), se resta ancora per aria la risposta alla domanda “Cosa deve fare l’Italia per vincere l’Eurovision?” dopo esserci andata ancora una volta vicinissima con Mahmood, constatiamo che questa manifestazione, con tutto il suo storico di kitsch ed esagerazioni (a dire il vero ormai molto limitate) ma anche l’ottima produzione e creatività, e l’allegria che sprigiona, si dimostra pur con tutti i difetti possibili un grande mezzo di comunione e unione culturale per i tanti Paesi che vi partecipano. Forse l’ultimo (evitando accuratamente il calcio dei divi) che, almeno una volta all’anno, ci rimane in questa Europa.

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